Avevamo in cantiere un articolo sul Trinche Tomás Carlovich e mai ci saremmo immaginati di parlarne in una situazione così tragica. A seguito della brutale aggressione di mercoledì, per rubargli una bicicletta, l’ex calciatore argentino è deceduto oggi.

– Semplicemente, il calcio professionistico ad alti livelli lo annoiava e preferiva giocare a suo modo e dove voleva lui –
Luis Cesar Menotti

Il Trinche Carlovich era così, un genio del calcio che amava questo sport nella sua accezione più pura. Ha sempre rifuggito la vita mondana e lo showbiz, ha preferito rimanere una leggenda locale, non è mai stato interessato a giocare in grandi palcoscenici tantomeno a trasferirsi in Europa. Già l’Europa, il continente lasciato dal padre prima del secondo conflitto bellico. La Croazia di inizio XX secolo era un Paese che, ancor più delle altri nazioni europee, soffriva povertà e miseria. La famiglia Carlovich decise quindi di emigrare in una delle terre promesse d’Oltreoceano.

I Carlovich si stabilirono a Rosario, precisamente nel Bairro General San Martín di Rosario, noto come La Tablada, e fu lì che il giovane Tomás diede i suoi primi calci a un pallone. Sin dall’inizio mostrò di essere innamorato del pallone, si rendeva protagonista di giocate da vero e proprio funambolo e deliziava le platee con numeri di altissima scuola. Era indolente agli allenamenti duri, ribelle, anticonformista e anarchico. Chi lo ha visto giocare giura che ricordava Riquelme. E sarebbe riduttivo considerare questo calciatore come uno dei tanti nel mare-magnum di coloro che non sono mai definitivamente sbocciati. Carlovich trascendeva il calcio, era un antierore da venerare.

Diego Armando Maradona con il suo idolo

Simbolo romantico di un calcio andato

Carlovich era un ottimo studente, appassionatissimo di storia e amava disegnare. Come tantissimi argentini dell’epoca, il Trinche cominciò a giocare al calcio nei potreros, quei campi argentini fangosi e improvvisati diventati elemento di culto nella letteratura. Lavorava in una catena di montaggio finché non fu chiamato a giocare con il Rosario Central, una delle due squadre principali della città.

Jorge Valdano afferma che Carlovich si trovò a giocare «nel momento sbagliato nel posto giusto» quando arrivò al Rosario Central a 23 anni. Il rapporto con il tecnico Manuel Ignomiriello non decollò mai. I due vivevano su due universi paralleli. Carlovich era un artista del calcio e aveva bisogno di un tecnico che gli consentisse di estrinsecare il proprio talento. Ignomiriello era un patito della tattica, del duro allenamento e della preparazione fisica. Due così non sarebbero mai potuto andare d’accordo.

E il Rosario Central non è certo la squadra che il Trinche ricorda con maggior piacere.

«Il più bel regalo che il calcio mi ha dato sono il Central Córdoba e l’Independiente Rivadavia. Io li definirei i due amori della mia vita. In entrambe le squadre ho giocato i migliori anni della mia carriera, che è durata in tutto 16 anni come professionista. Con il ‘Charrúas’ ho ottenuto due campionati di seconda divisione, nel 1973 e nel 1982. Gli amministratori del club mi hanno pagato un bonus speciale per i tunnel e un doppio bonus con un doppio tunnel».

Già: il doppio tunnel, il celeberrino Doble caño. Questa mossa consisteva nel superare l’avversario, rigorosamente utilizzando il piede sinistro, con un tunnel per la prima volta verso l’interno e poi dall’altro lato. Era una giocata che lo rendeva felice, catturando l’essenza viscerale dell’arte pedatoria. Nella maniera più assoluta non poteva essere considerato uno spaccone. Era un “prestipedatore” della specie più pura.

Il Central Córdoba era la terza squadra di Rosario e Carlovich decise di scendere in seconda divisione dopo l’esperienza infelice con il Rosario Central. Gli inizi con la nuova squadra furono eccelsi e stesso lui affermò: «Mi è riuscito tutto fin troppo facile dall’inizio. Dev’essere stato per questo». Menotti diceva di lui: «Era uno che giocava in perfetto “stile rosarino”, un portatore della genetica di questa città. Era il classico giocatore di potrero: gli immigrati, alla fine, non avevano nient’altro che il potrero». Jorge Valdano gli faceva eco: «La sua leggenda è un luogo comune, a Rosario, è parte dell’iconografia della città. E si è trasformato in un simbolo romantico di un tipo di calcio che già non esiste più».

Per rendere l’idea di ciò che era capace di fare questo calciatore, ricordiamo un’amichevole di preparazione ai Mondiali del 1974 tra la nazionale argentina e una selezione di calciatori della zona di Rosario, nella quale militava anche Mario Kempes. Il CT Vladislao Cap mise in campo la squadra titolare ma a fine primo tempo i rosarini erano in vantaggio per 3-0. A inizio ripresa il CT ordinò agli avversari di togliere “quel cinque”. Carlovich era in stato di grazia e la nazionale stava patendo un’umiliazione. Nessuno è riuscito a scoprire se, almeno per qualche momento, è balenata nella testa di Cap l’idea di portare quell’istrionico calciatore di seconda divisione ai Mondiali…

https://www.youtube.com/watch?v=btH5Epgvi44

Nel 1993, quando Diego Armando Maradona tornò in Argentina per giocare con il Newell’s Old Boys, proprio a Rosario, affermò che il miglior calciatore aveva giocato a Rosario e non era lui bensì Carlovich. Questo ragazzo con spirito bohemien, che amava divertirsi in campo e fuori, avrebbe potuto calcare palcoscenici ben più prestigiosi. Il suo talento avrebbe potuto portarlo a spasso per il mondo, ma lui semplicemente aveva altre aspirazioni.

«A un certo punto arrivarono offerte per me dalla Francia e anche dagli Stati Uniti che probabilmente mi avrebbero cambiato la vita economicamente; per me però giocare nel Central Cordoba era come giocare nel Real Madrid».

«Rifarei tutto quello che ho fatto, perché mi sono sempre divertito. Me ne sto solo, non ho voglia di fare niente. Julio Grondona mi disse che ero il suo calciatore preferito, che si sarebbe fatto carico lui personalmente della mia pensione. Però poi il poveretto è morto, e ora mi tocca fare tutto da solo».

Il Trinche Carlovich non era fatto per trasformarsi in una macchina da soldi, ma è riuscito a entrare nell’immaginario collettivo del pubblico argentino, diventando uno stereotipo di calcio spensierato, scanzonato, genuino e semplicemente bello. Niente è più infantile che immaginare un calcio in cui non si ha bisogno di un allenatore o di un avversario, né di risultati e nemmeno di trofei, semplicemente sognando un pallone senza alcuna ambizione se non quella di segnare un gol o deliziare la platea con un Doble caño. Quella giocata che spingeva gli appassionati a fare sacrifici per pagare un biglietto perché “Esta noche juega El Trinche”.