Helenio Herrera è stato uno degli allenatori più unici che il calcio abbia mai visto, per molti versi immaginabile. Gestiva le sue squadre con un mix di disciplina dittatoriale, regimi di allenamento esigentissimi, bizzarre abitudini psicologiche, campi di allenamento in stile militare e rigorosi piani alimentari. Nessuno aveva una voglia più feroce di vincere e nessuno andava oltre per raggiungerla.

I suoi metodi potevano essere crudeli e spietati, le sue squadre impietosi e ciniche. Durante i suoi due periodi di maggior successo, con il Barcellona dal 1958 al 1960, e con l’Inter dal 1960 al 1968, il suo personaggio eccentrico è stato manna dal cielo per la stampa. Le frasi colorate e gli affronti che gli sono stati attribuiti – a torto o a ragione – meritavano un dizionario tutto loro. Egocentrico, si divertiva a stare al centro dell’attenzione.

Per quanto riguarda le sue memorie, il libro di Sid Lowe Fear and Loathing in La Liga (2013) riporta: «Questo Herrera è il diavolo! Ora sta scrivendo le sue memorie! Che Dio ci perdoni! Come se non avesse già fatto abbastanza rumore! Come se i giornali non gli dedicassero già abbastanza attenzione! Come se le sue parole non invadessero già ogni casa, ogni ufficio, ogni laboratorio e ogni spazio pubblico! Come se non fosse già abbastanza ammirato! Come se non fosse già abbastanza odiato!»

Herrera sosteneva di aver inventato diversi aspetti del calcio moderno. Alcune affermazioni erano false, ma la maggior parte non lo erano. Esse includono i campi di allenamento e il sistema del catenaccio, presumibilmente distruttivo, sinonimo di calcio difensivo italiano. Fu il primo allenatore moderno. Ha elevato l’allenatore da figura periferica a figura dotata di fama, potere e influenza. Fu il primo tattico a prendersi il merito delle vittorie e a guadagnare uno stipendio simile a quello dei calciatori di punta. Ha applicato accorte tecniche motivazionali e ha monitorato la vita privata dei suoi giocatori.

Herrera mostra una delle sue frasi motivazionali fatte affiggere nello spogliatoio

 

I critici hanno spesso ritenuto che si spingesse troppo in là nella ricerca della vittoria. Più di una volta è stato criticato dai suoi stessi calciatori.

«Sono stato accusato di essere tirannico e completamente spietato con i miei giocatori. Tuttavia, ho solo messo in pratica cose che sono state poi copiate da ogni singolo club: duro lavoro, perfezionismo, allenamento fisico, diete, e tre giorni di concentrazione prima di ogni partita».

Herrera chiedeva astensione ai propri calciatori ed era il primo a dare l’esempio. Non fumava mai e molto raramente si concedeva un bicchiere di vino. Secondo la figlia Luna, i suoi primi piatti di pasta contenevano solo olio d’oliva e parmigiano. Faceva yoga tutte le mattine. Quando si svegliava, diceva a se stesso: “Sono forte, calmo, non temo nulla, sono bello”. Diffidava persino di bere troppa acqua, nascondendo la bottiglia sul pavimento e sorvegliandola con i piedi quando cenava con i suoi figli.

Un’implacabile nozione di disciplina guidava una personalità fervente, che non aveva eguali nel mondo del calcio. Gianni Brera è stato il suo biografo e la sua nobile penne ha partorito parole grandiose sul tecnico argentino.

«Buffone e genio, cialtrone e asceta, manigoldo e buon padre, sultano e fedele, Pirgopolinice e Bertoldo, becero e competente, megalomane e salutista. Herrera è tutto questo e altro ancora, come succede forse a ciascuno di noi. L’ho incontrato mago e l’ho riscoperto bambino, seguendolo con voi traverso mari e contrade di ogni continente. Io francamente non so come sia riuscito a mostrarvelo, per quante facce, da quanti lati. Importante, per me, che il personaggio non sia mai fasullo, neppure quando si sforza di esserlo. E H.H. è sempre vero, se non proprio accettabile».

Le origini di Helenio Herrera

Herrera nacqua a Buenos Aires da genitori spagnoli. Suo padre, Francisco, era un anarchico esiliato dell’Andalusia e un falegname di mestiere. Sua madre, Maria Gavilán Martínez, era una donna delle pulizie. I dubbi riguardavano la data di nascita di Herrera. I suoi passaporti francesi, spagnoli e argentini affermano che era nato nel 1916, ma il suo sito ufficiale dice che ha falsificato la data per concedersi sei anni in più. La data sul documento originale dovrebbe essere quella del 10 aprile 1910.

Nel 1920, la famiglia di Herrera – impoverita, in cerca di una vita migliore – lasciò l’Argentina per Casablanca, allora città coloniale francese. Herrera si iscrisse alle scuole francesi e fece amicizia con ebrei, francesi, italiani e spagnoli. Cominciò a giocare a calcio. Dopo aver giocato per Roches Noires e Racing Casablanca, all’inizio degli anni ’30 partì per Parigi per giocare per il Club Athlétique des Sports Généraux, lo Stade Français (due volte), il Charleville, l’Excelsior Roubaix, la Red Star Olympique e il CSM Puteaux.

Gianni Brera con Helenio Herrera

 

Sempre Gianni Brera ricorda l’infanzia di Herrera.

«Il futuro Accaccone [Per distinguero da Heriberto Herrera] è nato in un ospizio per immigrati nella città di Baires, capitale dell’Argentina. Chi dice nell’anno 1910, chi nel 1916, come egli medesimo sostiene. Suo padre, falegname, era chiamato Paco el Sevillano; sua madre si chiamava Maria Gavilan, così povera a sua volta che ancora bambina falsificò la data di nascita per poter andar a servire in casa di un inglese a Gibilterra. Paco e Maria non ebbero fortuna in Argentina e decisero di andare in Marocco a (prima) guerra mondiale finita. Helenito aveva tre anni. Il porto di Casablanca non offriva fondali sufficienti per l’attracco di navi transatlantiche. I mori andavano remando sottobordo e imbarcavano merci e passeggeri. Nel trasbordo, la grassa Maria Gavilan cadde in acqua e Paco el Sevillano implorò invano che gliela ripescassero. I mori, con molto cinismo, dissero che le acque erano infestate di pescicani e per rischiare tanto chiesero una somma che era pari a tutti i risparmi dell’infelice ma fedele Paco. Maria Gavilan venne portata a salvamento ma, non disponendo di altri quattrini, gli Herrera vennero costretti ad abitare le baracche dei profughi sulle dune prospicienti l’oceano. Così crebbe Helenito e poiché aveva orgoglio ne fece una sorta di epos desperado».

L’avventura all’Inter

Al Barcellona Luisito Suarez ha avuto la meglio su un certo Kubala, calciatore che ha fatto la storia dei Blaugrana, ma al quale Helenio Herrera preferiva questo ragazzino galiziano. Herrera è stato l’uomo del destino di Suarez, l’allenatore che ha creduto in lui sin dall’inizio. «Un grande, in anticipo sui tempi, ossessionato dalla velocità di gioco, di reazione, di pensiero. Anche i suoi allenamenti: duravano la metà degli altri, ma alla fine eri stanchissimo per l’intensità che richiedevano. Preparava le partite con il massimo d’informazione, per quei tempi. Aveva amici e informatori ovunque. E sapeva come caricare i giocatori. A Bicicli disse che era forte come Garrincha. Forse quella volta esagerò. Io del Mago posso solo parlar bene, se non ci fosse stato lui non avrei mai accettato di spostarmi dalla Spagna. Sono stato il primo spagnolo a venire in Italia, l’anno dopo la Juve prese Del Sol. In quegli anni la Spagna era più povera dell’Italia, ma un calciatore stava bene, non si muoveva, come del resto nessun calciatore emigrava dall’Italia».

Helenio Herrera e Sandro Mazzola

 

Nel 1960, Herrera firmò un ricco contratto con l’Inter. C’era del lavoro da fare. Sotto la guida del presidente Angelo Moratti, magnate del petrolio dalle vaste risorse, l’Inter puntava a rivincere la Serie A. La stagione precedente era arrivata al quarto posto, a 15 punti di distacco dalla Juventus. Herrera affermò che al suo arrivo all’Inter trovò un ambiente terribile, con la presenza di immagini di campioni del passato da ogni parte, cosa che il tecnico argentino reputava anacronistica.

Chi si metteva di traverso ai metodi di Herrera veniva fatto fuori. Fu il caso di Valentin Angelillo, capocannoniere della stagione ’58-’59, che fu mandato via a causa della sua vita sociale indisciplinata, e di un giovane Armando Picchi, che fu mandato in prestito al Varese dopo un alterco con il tecnico. Herrera avrebbe mandato via anche un altro personaggio scomdodo, Mariolino Corso, ma quest’ultimo era il preferito del presidente Angelo Moratti.

All’Inter, Herrera registrava le sue idee in appunti scritti con inchiostro nero, blu e rosso, molti dei quali sono stati inclusi nel libro Tacalabala, pubblicato dalla moglie Fiora Gandolfi dopo la sua morte. Gli slogan motivazionali ricoprivano gli spogliatoi. Sottolineava l’importanza del sostegno del pubblico e partecipava alla formazione di associazioni e gruppi di tifosi. Nel suo libro Calcio: A History of Italian Football (2006), John Foot sostiene che Herrera ha inventato gli ultrà.

Abbracciava i propri calciatori prima del calcio d’inizio e teneva incontri con ciascuno di essi, noti come “confessioni”. Aveva una cura maniacale per il rapporto con i calciatori. Chiedeva ai massaggiatori tutto ciò che i calciatori gli confidavano sulle proprie condizioni fisiche. La sua mentalità da duro e vincente fece presto braccia dell’Inter. Una volta, un membro della squadra disse alla stampa che l’Inter era venuta “a giocare a Roma” piuttosto che “a vincere a Roma”. Quel calciatore fu sospeso da Herrera.

Herrera coltivò quello che divenne noto come il ritiro. Erano dei campi di allenamento , dove i giocatori venivano rinchiusi in hotel per giorni, circondati da personale, campi e attrezzature. L’intenzione era quella di aumentare la concentrazione prima delle partite. Secondo il sito web di Herrera, l’idea fu concepita a Barcellona. Mentre si trovava in ospedale per il trattamento di una frattura, lesse un libro sul misticismo che conteneva esercizi spirituali del XVI secolo, e il concetto si sviluppò da lì.

I ritiri potevano essere spiegati. L’Inter avrebbe prenotato interi alberghi, così non si sarebbe vista nessun’altra persona. Quando l’attaccante inglese Gerry Hitchens lasciò la squadra, disse che era come “uscire dall’esercito sanguinario”. Raramente la pigrizia è rimasta impunita. Durante una corsa campestre, Hitchens, Suárez e Corso finirono nelle retrovie e arrivarono al traguardo molto dietro rispetto ai compagni. Scoprirono che il pullman era partito, e furono costretti a percorrere a piedi i 10 km che li separavano da Milano.

Herrera viene, a torto, identificato come l’inventore del Libero e del Catenaccio. Spieghiamo la storia nei nostri pezzi su Nereo Rocco e sulla storia dei moduli.

Helenio Herrera con Nereo Rocco

 

I trionfi in nerazzurro

Il regno di Herrera in nerazzurro iniziò lentamente. L’Inter arrivò terza nel 1961, e seconda nel 1962, dietro al Milan. Ci si aspettava di più da un allenatore così alla ribalta e con uno stipendio così elevato. Quell’anno Herrera allenò la Spagna ai Mondiali di calcio del 1962 in Cile, ma La Roja cadde nella fase a gironi.

Rientrato in Italia, portò lo scudetto all’Inter dopo 10 anni. La stampa italiana lo soprannominò “Il Mago” per la sua capacità di prevedere i risultati del fine settimana. Quando Kuper lo intervistò, a Venezia, notò un’opera d’arte che ritraeva Herrera come un mago, anche se anni prima Herrera aveva detto che non gli piaceva il soprannome.

«La parola ‘mago’ non appartiene al calcio. “Passione” e “forza” sono parole del calcio. Il più grande complimento che abbia mai ricevuto è stato da coloro che affermavano che lavoravo 30 ore al giorno».

La squadra fu soprannominata La Grande Inter. Non fu certo un soprannome immeritato. Erano calciatori disciplinati, duri a morire, d’acciaio, abili, vivaci; fortificati dal regime di allenamento e dal team-building di Herrera. La tattica era quella del catenaccio, ma con modifiche di vitale importanza. Giacinto Facchetti, un atletico ex centravanti convertito in un avventuroso esterno sinistro, creava scompiglio sulla fascia. Nel 1965-66 segnò dieci gol in campionato. Al centro giocava un Libero come Picchi, dalle ottime doti di impostazione, coadiuvato da Aristide Guarneri e Tarcisio Burgnich. L’intera fascia destraera occupata da Jair, un ala brasiliana di grande resistenza. Il maestro del centrocampo era Suarez. Corso presidiava al fascia sinistra, mentre Sandro Mazzola – figlio del leggendario capitano del Torino Valentino – coadiuvava l’attaccante centrale.

L’Inter di Herrera e l’Inter del triplete di Mourinho

 

Herrera spiegava così il proprio stile: «Un piccolo numero di passaggi brevi e molto veloci per raggiungere la porta avversaria nel minor tempo possibile. Non c’è quasi posto per il dribbling. È uno strumento, non un sistema. La palla si sposta sempre più lontano, e più velocemente, quando non c’è un giocatore dietro di essa».

Le Coppe dei Campioni

Nel 1964, l’Inter perse il campionato contro il Bologna, ma conquistò la sua prima Coppa dei Campioni battendo il Real Madrid per 3-1 in finale a Vienna grazie alla doppietta di Mazzola e al gol di Milani. Quella partita segnò il crepuscolo di Ferenc Puskás e Alfredo Di Stéfano. Per Herrera significò anche una dolce rivincita per la sconfitta per 6-2 del 1960. Prima della finale, Miguel Muñoz, l’allenatore del Madrid, era ossessionato da Facchetti.Ci faceva impazzire con Facchetti, dandogli un’importanza incredibile“, diceva Di Stéfano. Gioco psicologico da parte di Herrera. In quella partita, Facchetti non attaccò quasi mai e l’Inter sviluppò attacchi centrali.

Foto del trionfo nerazzurro nel 1964

 

In quella finale un Inter superiore dimostrò i vantaggi del catenaccio. La squadra di Herrera giocò una partita perfetta, con Picchi ultimo baluardo. Di Stefano lo descriceva come “uno di quei liberi che giocavano così in profondità che, se c’era un po’ di nebbia e si pensava di averli superati tutti, ne appariva un altro”. «Da dove è spuntato quel tipo? Stanno giocando in 12, o cosa?». In quella partita Herrere piazzò Tagnin su Di Stefano, non facendolo respirare.

In porta Giuliano Sarti era in dubbio fino all’ultimo, ma recuperò e si rese protagonista di una partita epica. Dopo il gol iniziale di Mazzola, gli spagnoli trovarono enormi difficoltà a penetrare nella difesa nerazzurra. Milani raddoppiò e la Coppa sembrava aver preso la strada di Milano, ma il Real accorciò le distanze. Picchi e Sarti salvarono i nerazzurri e Mazzola siglò il 3-1 finale. Doppietta storica e Angelo Moratti portato in trionfo.

Nel 1965, l’avversario era il Benfica, squadra devastante, con La Pantera Nera Eusebio, che era considerato il calciatore più forte d’Europa a quei tempi. Quell’Inter aveva raggiunto la finale dopo una rimonta incredibile contro il Liverpool. Ad Anfield dominò la squadra di Shankly vincendo 3-1, ma i nerazzurri erano forti del gol segnato da Mazzola. Il gol in trasferta non valeva doppio, ma quella rete fu certamente di aiuto. Dopo il vantaggio segnato da Corso con la classica punizione “a foglia morta”, Peirò si rese protagonista di un gol diventato famoso per l’astuzia dello spagnolo nel rubare palla al portiere Lawrence. L’estremo difensore del Liverpool la fece rimbalzare prima di rinviare, non accorgendosi che lo spagnolo era rimasto dietro di lui, il quale gliela rubò prontamente, depositandola in rete. Il terzo gol arrivò con un incursione di Facchetti.

La partita contro il Benfica fu disputata tra le mura amiche. I portoghesi erano una corazzata e, oltre a Eusebio, disponevano di un collettivo formidabile. Sotto un’acquazzone scrosciante, a decidere la gara fu Jair. La partita epica della difesa e di Sarti consentì quindi ai nerazzurri di sollevare un secondo trofeo, un’altra volta il 27 maggio.

Eusebio tra le maglie nerazzurre

 

Helenio Herrera chiuse la sua avventura in nerazzurro nel 1968, tornando brevemente nel 1973. Arrivò a conquistare anche Coppa Intercontinentale e triplete, lasciando un ricordo indelebile nella storia dell’Inter. Celebri le sue parole.

«Il fine ultimo è quello di rendere i miei uomini i migliori calciatori possibili. Vincere uno scudetto o una Coppa dei Campioni è il risultato della somma di tre fattori: classe, preparazione atletica e intelligenza. I giocatori di classe li avevo, a me spetta lavorare sulla loro preparazione atletica e sull’intelligenza».

 

Vincenzo Di Maso