L’essenza del Principe Enzo Francescoli

Enzo Francescoli appartiene a quel novero di calciatori la cui sola presenza in campo vale il prezzo del biglietto. Uno come lui si colloca a metà strada tra il Trinche Carlovich e Diego Armando Maradona.

Parlando del Triche, Luis Cesar Menotti affermava che “Semplicemente, il calcio professionistico ad alti livelli lo annoiava e preferiva giocare a suo modo e dove voleva lui”. Diego Armando Maradona non ha invece bisogno di presentazioni. Il Pibe de oro ha sprigionato magia ed estro a livelli leggendari.

Enzo Francescoli, inserito nel FIFA 100 da Pelé, ha giocato a livelli più alti rispetto al Trinche ma, per una serie di motivi, non è arrivato in squadre attrezzate per vincere tutto. Ce lo siamo gustati in Italia, tra Cagliari e Torino, ma la sua vita calcistica è legata indissolubilmente al River Plate.

Ad assegnargli il suo soprannome per cui è diventato celebre fu Victor Hugo Morales, suo connazionale.

«Il soprannome nasce perché io canticchiavo sempre il ‘tango Principe’. Una volta Enzo segnò una rete e io ripetei una parte: ‘Prìncipe soy, tengo un amor y es el goal’. Peraltro il soprannome gli calzava alla perfezione, perché Enzo aveva un’aria malinconica ma un portamento davvero principesco».

Gli anni ’80 hanno rappresentato il manifesto dei numeri 10, soprattutto in Sud America. Quello del fantasista è un ruolo occupato da calciatori in grado di fare cose che nessun altro in campo è in grado di compiere. L’Argentina aveva Maradona, il Brasile aveva Zico, la Colombia aveva Valderrama, l’Uruguay aveva Enzo Francescoli.

El Príncipe era un calciatore di sublime eleganza e grazia, con una struttura fisica che inizialmente gli impedì di giocare ai massimi livelli, ma che nel prosieguo della carriera non si rivelò un deterrente. Proprio per questa mancanza di fisicità a 16 anni Francescoli fu scartato dal Peñarol. Dopo gli inizi con i Wanderers di Montevideo, arrivò il salto con il River Plate di Buenos Aires.

Una copertina di El Gráfico dedicata a Francescoli

Il successo non si fece attendere e nel 1985, quando aveva 24 anni, el Flaco (altro suo soprannome) fu nominato miglior calciatore del campionato argentino. Al River poi tornò quando lasciò l’Europa. Il rispetto guadagnato da Francescoli in terra a argentina è esemplificato dalle parole dei tifosi degli arcirivali del Boca: «I tifosi del Boca mi chiedono autografi. Sì, tirano fuori dal portafoglio un biglietto di una partita e mi dicono: “Sono del Boca ma tu eri troppo speciale e poi io ero alla tua partita d’addio».

Fu il primo anno in cui il riconoscimento fu assegnato a un calciatore non argentino. Il capitano uruguaiano si trasferì al Racing Club Paris nel 1986 e terminò la sua prima stagione come miglior marcatore in Ligue 1.

Dopo un’altra stagione in quel di Parigi, Francescoli si trasferì al Marsiglia. In Provenza rimase solo un anno, il tempo di vincere un campionato e segnare 11 reti. Quell’unica stagione gli bastò per lasciare un ricordo indelebile tra i tifosi marsigliesi. In particolare tra un giovanissimo calciatore che si stava affacciando al grande calcio. Quel Zinedine Zidane che lo elesse come suo idolo e modello.

D’altronde, quando l’uruguaiano giocava nel Marsiglia, Zizou andava a vedere gli allenamenti della squadra, di proposito per vederlo. Celebre poi l’aneddoto del figlio di Francescoli che conobbe Zidane e gli chiese dove aveva imparato quel modo così sublime di controllare il pallone: Chiedilo a tuo padre, io ho imparato da lui“.

Zizou con il suo idolo

Zizou lo ha invece ricordato così: «Se penso a lui, una parola mi sovviene più di altre: eccezionale. Avevo 14 anni quando si disputò il Mondiale del 1986, un’età in cui capisci davvero il calcio. Mi chiesi se quello che stessi vedendo fosse davvero opera di un calciatore. Quando lo ricordo oggi, mi riporta all’epoca dell’adolescenza. È stato magico, unico, impossibile da imitare. Completamente diverso dagli altri. Tutto il mondo sa che il mio idolo è stato Enzo Francescoli: ho tentato di imitarlo, per esempio, nel controllo della palla. Con Maradona non ho osato farlo, perché è inimitabile. Ricordo perfettamente tutto quello che fece in quella famosa Coppa del Mondo, soprattutto l’incredibile gol contro l’Inghilterra. Quello che mi meraviglia ancora oggi è la lucidità dopo 60 metri di corsa palla al piede. Qualsiasi giocatore, anche dei nostri tempi, avrebbe tirato davanti al portiere. Lui no, lui lo ha dribblato. Un colpo di genio assoluto, un gesto che resterà sempre impresso nella mia memoria. Secondo me è il più importante della storia. Tra quelli che ho visto giocare, è il più grande».

In Italia arrivò prima a Cagliari, ma non era nelle migliori condizioni. Come ha dichiarato stesso lui, non riposava da quattro anni. Nel capoluogo sardo fu accolto da re e si trovò immediatamente a suo agio. La città gli ricordava Montevideo. Dopo gli inizi difficili, a causa dello stato di forma, l’uruguaiano iniziò a crescere.

Ranieri lo aspettò pazientemente e Francescoli ricambiò con prestazioni straordinarie. In Sardegna ottenne due salvezze nei primi tre anni, prima con il tecnico di Testaccio, poi con Mazzone. Al terzo anno giunse lo straordinario sesto posto, con tanto di qualificazione alla Coppa UEFA.

Lulù Oliveira ne tesse le lodi: «Volava in alto, sembrava la stesse prendendo di testa, invece la stoppava con il petto. Un giocatore normale colpisce di testa. Lui invece no: saltava, e col petto la faceva scivolare sul piede, poi tirava in porta. Era un’anguilla».

A seguito di divergenze con il presidente Cellino, si accasò poi al Torino. Nel capoluogo piemontese rimase una sola stagione. In Granata la maglia numero 10 fu immediatamente sua. Nonostante l’età non più verde, il campione uruguaiano mise a segno 5 reti nell’unica stagione al Toro. Chiamato dall’amico Pato Aguilera, fu convinto anche da Goveani, che andò a Washington per convincerlo.

Con Emiliano Mondonico, El Príncipe ricoprì una posizione più arretrata. Il tecnico lombardo non ebbe la possibilità di impiegarlo in tutte le partite, visto qualche acciacco di troppo, ma quando giocò riuscì a mettere in mostra le sue qualità. Pur non diventando un vero sovrano, a differenza di quando avvenne con il River, Francescoli lasciò comunque il segno anche in Italia.

Con la maglia del Toro, si mise a disposizione della squadra, ergendosi a sole attorno al quale ruotavano tutti i pianeti. Grazie alla sapiente regia dell’uruguaiano, Andrea Silenzi realizzò ben 17 reti in stagione. Quando tornò al Sant’Elia per giocare contro il Cagliari, Francescoli si fece prendere dall’emozione e fu sostituito da Mondonico.

Impossibile dimenticare un suo gesto tradizionale. Quando la partita si faceva dura, l’uruguaiano si toglieva i parastinchi e abbassava i calzettoni per immergersi ancor più nella partita. Quasi a rievocare leggendari gesti in casa Torino, quando Valentino Mazzola si rimboccava le maniche, dando il via al celebre “quarto d’ora granata”.

Quando si giudica la grandezza di un calciatore, a volte bisogna guardare al di là dei numeri e delle statistiche. Va analizzato invece il modo in cui ha interpretato il gioco del calcio e ciò che ha tramandato per le future generazioni. Francescoli risponde perfettamente a questo tipo di identikit. Quando dipingeva calcio in campo, sembrava che non si sforzasse, come se si stesse esibendo in un teatro. E tra coloro che hanno raccolto la sua identità c’è una leggenda come Zinedine Zidane.

Vincenzo Di Maso