L’8 ottobre 1964, il Congresso FIFA di Tokyo rivelò il Paese ospitante per i Mondiali di calcio del 1970. Con 56 voti contro 32 contro ottenuti dall’Argentina, il Messico è diventato il primo rappresentante nordamericano ad ospitare la fase finale della rassegna iridata.

Tra le squadre coinvolte nelle qualificazioni c’erano anche El Salvador e Honduras. Indipendentemente dalla vicinanza geografica, va anche ricordato che i due Paesi hanno una cultura comune: sono gli unici sull’istmo a condividerla. Essi condividono anche il fatto di essere popolati da meticci, mentre la popolazione delle nazioni vicine è di origine india o europea.

El Salvador e Honduras sono anche linguisticamente vicini, separati da un confine reso più virtuale che reale dalla molteplice mescolanza delle popolazioni. Tanto che la parola “integrazione” era solo un concetto, dato che i due Paesi avevano tantissime relazioni. Ricordiamo ad esempio che l’Honduras ha concesso la nazionalità honduregna ai figli degli stranieri. Inoltre, molti salvadoregni si erano stabiliti in Honduras senza aver portato a termine le pratiche amministrative per mettersi in regola e senza avere avuto mai problemi in tal senso con le autorità (alcuni hanno anche votato, altri sono diventati sindaci o consiglieri comunali).

Le capitali dei due Paesi centroamericane sono piuttosto vicine

Ma il contesto alla fine degli anni Sessanta era particolare: gli Stati Uniti volevano rallentare l’espansione della rivoluzione cubana in America Centrale e quindi sviluppare un mercato comune in quest’area che fosse di maggior beneficio per il più industrializzato El Salvador. Quest’ultimo si era modernizzato molto più rapidamente, aveva sfruttato perfettamente le sue risorse e le aveva nazionalizzate (nel 1965, El Salvador era il terzo esportatore di caffè del continente, subito dopo Brasile e Colombia; nel 1969, era il Paese più industrializzato dell’America Centrale e si trovava davanti a Ecuador, Colombia e Venezuela sulla scala dell’America Latina).

Da parte sua, l’Honduras stava lottando per tenere il passo. Tuttavia, la sua risorsa principale, le piantagioni di banane, era sotto il controllo straniero (e soprattutto americano). La preoccupazione principale per El Salvador era data dalla sua dimensione. Troppo piccola per una popolazione troppo numerosa. Non aveva la possibilità di accogliere tutti, soprattutto perché l’industrializzazione spingeva anche ad un forte aumento del tasso di lavoratori disoccupati non qualificati. Ciò portò a grandi ondate migratorie da El Salvador al vicino Honduras.

Questa forte ondata di immigrazione ebbe ovviamente conseguenze politiche, poiché in Honduras il generale Arellano, allora al potere, non smise mai di fare il gioco nazionalista e condusse, al suo fianco, vaste campagne xenofobe dirette contro i salvadoregni che accusò di essere venuti a colonizzare il suo Paese.

All’epoca un guanaco, il soprannome dato ai salvadoregni, era descritto come un ladro (d’altra parte, il catracho, honduregno, era descritto come pigro). Ciò provocò quindi dissidi tra i due Paesi. L’incontro calcistico tra le due nazioni, di cui parliamo nel seguito, rappresentò quindi l’occasione perfetta per edificare queste posizioni nazionaliste e suscitare odio.

Alla fine non fu solo una guerra calcistica

Le tensioni sociali ed economiche provocarono quindi una guerra che iniziò il 14 luglio 1970. El Salvador lanciò un attacco aereo verso l’Honduras. Come reazione, Tegucigalpa bombardò il porto di Acajutla e, lo stesso giorno, i salvadoregni attaccarono nuovamente il Paese vicino. Andiamo con ordine…

Quando si cerca di associare le parole “El Salvador” e “calcio” è inevitabile pensare a uno dei momenti peggiori della storia della nazione salvadoregna. Grazie allo scrittore Ryszard Kapuscinski, abbiamo potuto conoscere in prima persona la terribile storia di quel classico con l’Honduras che si concluse con una breve ma fatale guerra nel 1969 (il match è considerato come un catalizzatore, non il “grilletto” premuto per far partire il colpo, cosa che lo scrittore polacco ha spiegato molto bene). L’8 giugno 1969 la capitale dell’Honduras, Tegucigalpa, era teatro della sentitissima sfida tra i padroni di casa ed El Salvador.

L’accoglienza fu terribile per gli ospiti, con i tifosi locali che tennero svegli i calciatori di El Salvador, facendo baccano e lanciando sassi contro l’albergo. Ricordate ciò che provarono a fare i tifosi del Barcellona per disturbare il sonno dei calciatori dell’Inter alla vigilia della semifinale d’andata della Champions 2010? Moltiplicatelo per 100. L’Honduras avrebbe vinto quella partita per 1-0 grazie a un gol di Roberto Cardona allo scadere.

Pochi giorni dopo, una ragazza salvadoregna, Amelia Bolanos, prese la pistola del padre e si sparò morendo sul colpo. Questo suicidio generò una sorta di rivolta nazionale al punto tale che i media locali affermavano che Amelia si era suicidata «per non aver retto al dolore di vedere la patria messa in ginocchio». I calciatori della nazionale di El Salvador, “rei” di aver causato tutto ciò, furono subissati di fischi e improperi ai funerali di Amelia Bolanos.

Qualche giorno dopo, fu il turno di El Salvador a ospitare l’Honduras, questa volta a casa sua. Cosa successe? I calciatori della nazionale honduregna furono scortati dai carri armati per recarsi allo stadio. Prima del match, i tifosi salvadoregni si erano vendicati nei confronti dei calciatori honduregni, riservando loro lo stesso trattamento riservato alla nazionale di El Salvador nell’albergo di Tegucigalpa. In occasione del match l’inno nazionale honduregno fu fischiato e la bandiera bruciata. Il clima era infuocato e gli ospiti affrontarono il match in condizioni proibitive. A vincere fu El Salvador per 3-0. Più che battere l’avversario, l’obiettivo era salvare la propria incolumità. A fine match, il CT dell’Honduras affermò sollevato: «Fortuna che abbiamo perso».

Una raffigurazione del suicidio di Amelia Bolanos

Quella partita innescò una serie di rivolte che culminarono in morti, feriti e danni ingenti nella capitale salvadoregna. Ryszard Kapuscinski ricorda: «il confine tra football e politica è molto sottile e lunga è la lista dei governi caduti o rovesciati dall’esercito per una sconfitta della nazionale». El Salvador bombardò quindi l’Honduras, facendo scoppiare una guerra che sarebbe durata 100 ore, con bel 6000 morti.

Tutto questo dramma per una semplice partita di calcio? «Il calcio – ricordò Kapuscinski – contribuì a rinfocolare lo sciovinismo e l’isteria patriottica, tanto necessari per scatenare la guerra e rafforzare il potere dell’oligarchia in entrambi i Paesi». E aggiunse: «I due governi sono rimasti soddisfatti dalla guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l’interesse dell’opinione pubblica internazionale. I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste ma vero».