La Serie A va a rotoli, ecco i colpevoli!

Presidenti miopi in Serie A

La Serie A è piena di presidenti bravissimi a fare i conti. Ma ciascuno pensa a sé stesso, interessato a far quadrare il bilancio societario attraverso plusvalenze fittizie e contabilità creativa. E solo in misura minore, voglioso di arricchire la bacheca del club di tituli e trofei.

Questa consuetudine largamente diffusa tra qualche proprietario fortemente miope di non lavorare in sinergia con gli allenatori genera un corto circuito calcistico, e favorisce la costruzione di squadre senza capo né coda, da parte di direttori vari e consulenti assortiti.

Troppe volte questi ultimi si muovono sulla scorta dei suggerimenti interessati di procuratori senza alcuno scrupoloso. Gratificati solo ed esclusivamente dalle ricche prebende garantite dall’intermediazione, piuttosto che vogliosi di tutelare la carriera sportiva dei propri assistiti.

Allenatori compiacenti

Un conflitto di interessi, avallato, seppur indirettamente, da chi siede in panchina.

In effetti, oggi gli allenatori sono costretti ad accettare talmente tanti compromessi, che poi si ritrovano ad impazzire. Alla continua ricerca del miglior modulo da adottare, rispetto alle loro idee.

Nonché alla filosofia di gioco che vorrebbero cucire sulla pelle di calciatori inadeguati per caratteristiche tecnico-tattiche, scelti sostanzialmente da altri.

Tristemente obbligati ad arruolare un mucchio di giocatori scarsi, vecchi nella testa prima ancora che nel fisico. Se non, addirittura, fortemente ipervalutati e sovradimensionati rispetto al loro reale valore.

Se non ti adatti, scompari

L’atteggiamento passivo dei tecnici è giustificato dal fatto che se non ti adatti, diventi un disoccupato. O ti adegui al sistema e triboli silenziosamente, altrimenti smetti di lavorare. Esci dal giro, dimenticato. Un vorticosa giostra dalla quale, ovviamente, nessuno vorrebbe scendere. D’altronde, il frastuono spesso esagerato dello show business pedatorio è sempre preferibile alla pena di un inevitabilmente oblio professionale.

I presupposti per allenare in Serie A, dunque, sono profondamene cambiati. Stare costantemente in vetrina è diventato fondamentale. Al netto delle competenze specifiche, pubblicizzare sé stesso, piuttosto che limitarsi a far parlare i risultati maturati sul campo, pare sia imprescindibile.

In quest’ottica deve essere interpretata la sovraesposizione di alcuni allenatori. La voglia sfrenata di mostrarsi pubblicamente, trasformandosi in una icona social. Apparire, al punto tale da affascinare tifosi e giornalisti con dichiarazioni roboanti, capaci di rendere sé stessi veri e propri opinion leader.

Le statistiche che fregano la Serie A

Così, i numeri che contano davvero per valutare l’efficacia di una squadra vengono artefatti e trascurati. A vantaggio di statistiche effimere, dal sapore americaneggiante, che poco hanno da aggiungere a quello che succede all’interno del terreno di gioco.

Su tutte, la tanto esaltata percentuale di possesso palla. Una sorta di vaneggiamento che pare abbia colpito trasversalmente un po’ tutti gli allenatori. Dalla Serie A fino ai settori giovanili.

Una ricerca esasperata del bello a tutti i costi. L’estetica trascendentale riveduta e corretta in chiave marcatamente offensiva.

Una rivoluzione culturale, riuscita solamente a metà. Che in teoria avrebbe permesso di rivisitare il calcio sparagnino e conservatore. Ma al contrario ha finito per derubricare il dominio attraverso il palleggio a sterile possesso, dal sapore vagamente inconcludente e ancor più inutilmente arabescato.

Poiché il fine ultimo resta quello di segnare un gol in più della controparte, appare evidente quanto il problema non sia tanto il tempo che una squadra mantiene il possesso. Quanto, invece, la restante percentuale. In sostanza, cosa riescono a concretizzare gli avversari quando la palla la tengono loro.

Questo è il dato che conta veramente. Pesante come un macigno sul destino di ogni allenatore.

Quanto egocentrismo, fuori e dentro il campo

Nondimeno, capita di imbattersi in tecnici che troppo spesso sostituiscono il pronome “noi”, funzionale ad indicare una comunione di intenti tra staff e squadra, all’assai più egocentrico “io”.

In conferenza stampa un mucchio di costoro palesano un egoismo che stride con la figura di chi è chiamato a gestire un gruppo. Parlano apertamente di “mio calcio”, alla stregua di chi crede di aver scoperto l’acqua calda.

Peggio ancora, la presunzione traspare nitida dalle dichiarazioni di quelli che sembra abbiano inventato il calcio. Come se gli obiettivi della squadra, ovvero il conseguimento di un risultato, divergessero dalla necessità del tecnico stesso di sponsorizzarsi e veicolare all’esterno dello spogliatoio le sue convinzioni.

Magari è da inguaribili romantici una visione della figura di chi siede in panchina legata maggiormente a dinamiche di campo e meno a fenomeni mediatici.

Eppure in una Serie A che va a rotoli, tornare all’antico, ad un calcio etico nei comportamenti di tutte le sue componenti, in primis proprio degli allenatori, potrebbe essere la soluzione ideale, anche economicamente sostenibile, per rilanciare un sistema sull’orlo di una irreversibile crisi di identità. Senza dover necessariamente ricorrere a sotterfugi di natura ragionieristica…

Francesco Infranca