Paolo Di Canio, ancora una volta, si è messo al centro della polemica con dichiarazioni quantomeno bizzarre, cariche di preconcetti e prevenzioni. Nel suo sfogo contro il belga Romelu Lukaku — figura evidentemente invisa al “Nostro” — non poteva certo mancare la solita stoccata velenosa alla Roma, bersaglio prediletto di chi, come lui, professa con orgoglio la propria fede laziale. È un copione già scritto, una pièce teatrale in cui il nostro Paolo indossa i panni del polemista istrionico, uno che sa bene come manovrare l’opinione pubblica, ma che, ahimè, spesso si perde nei labirinti della sua stessa veemenza. “L’anno scorso ha spostato zero alla Roma: erano arrivati sesti e sono arrivati sesti con lui e Dybala”.
Il Barcellona di Messi, quella sera funesta, incassò un 8-2 dai bavaresi che pareva un anatema, una sorta di condanna biblica. La Pulga, l’indomito Lionel, quasi trascinato sul patibolo dal suo stesso genio, appariva smarrito e impotente dinanzi alla furia teutonica. Eppure, come l’araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri, eccolo trionfare da dominatore al Mondiale, poco più di due anni dopo. E qui nasce il dilemma, la questione che ci lascia perplessi: sarà che il buon Di Canio, tra un’eloquente dissertazione e l’altra, ci rammenta che il calcio è e rimane un gioco di squadra, un duello che si combatte in undici? Perché anche il più prodigioso dei fuoriclasse, senza un contesto propizio, senza la sinergia di compagni all’altezza, non può compiere da solo miracoli eucaristici sul campo. Questa, signori, è l’essenza di quel gioco straordinario che chiamiamo calcio.
Questi commenti al veleno nei confronti di Lukaku vanno avanti da anni. Dopo alcune critiche pretestuose, i tifosi nerazzurri insorsero contro Di Canio. Un commento in particolare è passato alla storia di Twitter: “La prossima volta Di Canio proverà a screditare Lukaku attingendo argomenti dalla rivista “La difesa della razza” o anche: “Da noto razzista, Di Canio non è capace di fare dei complimenti ad un atleta di colore. Purtroppo questo mi pare evidente”.
Chi scrive è costretto a una premessa, forse amara, ma necessaria. Non sopporta il politicamente corretto, quello ipocrita e corrotto, né i deliri woke e meno che mai la politica di sinistra che spesso si compiace del proprio moralismo. Tuttavia, con la lucidità che ogni uomo dotato di sale in zucca dovrebbe avere, si dichiara senza mezzi termini antirazzista e antifascista. Non è una questione di schieramento politico, badate bene, ma di aderire a valori universali che travalicano ideologie e appartenenze. Valori come l’odio per l’ananas sulla pizza, sacrilegio per il palato e l’anima: perché, vedete, anche nel gusto, come nella vita, ci sono principi che non si possono tradire.
Le critiche a Di Canio appaiono circostanziate. Le sue costanti invettive contro Lukaku, a ben vedere, nascondono una polemica annosa: sin dai tempi della Premier, il buon Paolo ha preso di mira Romelu Lukaku. Occorre però una disamina più accurata. Di Canio calcava i campi inglesi quando ancora la Serie A non temeva rivali, e il calcio inglese, pur in crescita, non aveva raggiunto l’apice che avrebbe toccato negli anni a venire. Il suo bottino di reti fu considerevole, ma maturato in un contesto dove il fascino e il dominio tecnico della Serie A erano indiscussi.
Lukaku, invece, si è misurato con la Premier nel suo massimo fulgore, quando la Terra d’Albione poteva vantare il titolo di miglior campionato del mondo senza alcuna discussione. Le sue prestazioni, le sue reti, vanno quindi lette in una chiave diversa, in un contesto più competitivo e qualitativo.
Di Canio, da par suo, fatica ad ammettere che il pallone, come ogni cosa, è soggetto a mutevoli equilibri. E oggi, l’ultimissimo periodo ne è testimone, la Serie A si è fatta nuovamente spazio, guadagnando terreno nel ranking UEFA e portando le sue squadre in finali europee. Non solo: ha vinto due coppe e addirittura una delle sue compagini ha raggiunto l’ultima finale di Champions. Così, le critiche di Di Canio si rivelano più un esercizio di memoria selettiva che una vera analisi, e i fatti, come sempre, hanno la meglio sulle parole.
Con la sua consueta e proverbiale tracotanza, Di Canio ha lanciato l’ennesima sentenza, sostenendo che esista una ragione ben precisa per cui il Bayern ha scelto Kane (grandissimo centravanti ma zero titoli importanti in carriera), mentre il Chelsea ha virato su altri attaccanti. Ma la realtà dei fatti, quella realtà che sovrasta ogni opinione e che si erge a giudice supremo e incontrovertibile, lo inchioda ancora una volta. Il Chelsea, dall’euforica notte della vittoria della Champions nel 2021, è diventato la parodia di sé stesso, annaspando in scelte di mercato discutibili. Ha scommesso su Jackson, un attaccante che nella Liga aveva mostrato solo sprazzi di talento, ma nulla di paragonabile al carisma di un bomber navigato.
E Lukaku, snobbato da chi si accontenta di guardare il calcio da lontano, è il miglior marcatore della nazionale belga, una nazionale che ha vissuto con lui il suo periodo di massimo splendore. In Premier League, Lukaku ha segnato caterve di gol quando il campionato inglese era, senza mezzi termini, anni luce avanti alla nostra cara Serie A. E ora, con il solco tra i due tornei che si è notevolmente assottigliato, emerge chiaro il limite di giudizi affrettati e privi di fondamento. Di Canio, come sempre, si è perso nell’eco delle proprie parole.
Rimaniamo francamente attoniti dinanzi alla decisione di emittenti di prim’ordine che continuano a concedere spazio a un tale personaggio. Ci si straccia le vesti per una mezza parola scivolata fuori dal seminato del politicamente corretto e poi, in una stupefacente contraddizione, si offre un palcoscenico spropositato a una figura come Paolo Di Canio. Costui non ha mai celato la propria ammirazione per uno degli individui più esecrabili della storia umana, Benito Mussolini. Di Canio si permette persino di pontificare sui canali a pagamento, laddove si presupporrebbe una certa levatura morale e culturale.
V’è da rimanere sconcertati, soprattutto quando si considerano giovani competenti e preparatissimi, costretti a operare nell’ombra dei canali YouTube. Canali di tutto rispetto, sia chiaro, con contenuti ben curati e un pubblico affezionato, ma pur sempre lontani dalla vasta platea delle emittenti nazionali. Eppure, lì rimangono confinati, mentre un Di Canio qualsiasi, senza remore e senza filtro, prosegue imperterrito la sua sfilata televisiva. Almeno Antonio Cassano, suo alter ego, pur nel suo dire spesso sopra le righe, non si è mai fatto paladino del fascismo e, si badi bene, non lavora in televisione. Una riflessione amara, ma necessaria, sullo stato attuale delle nostre emittenti.
Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione