Oggi viaggeremo fino in Sud America, per scoprire il segreto delle quattro stelle che brillano sul petto della maglia dell’Uruguay. Una nazionale piccola ma dal cuore immenso, capace di scrivere pagine indimenticabili nella storia del calcio mondiale.
L’Uruguay è una nazione di poco più di 3 milioni di abitanti, eppure vanta un palmarès calcistico che farebbe invidia a molti giganti del calcio. Due Coppe del Mondo, vinte nel 1930 e nel 1950, sono i trofei più prestigiosi, ma non gli unici. Ci sono anche due medaglie d’oro olimpiche, conquistate nel 1924 e nel 1928, che l’Uruguay considera alla pari dei Mondiali, e che giustificano le quattro stelle sulla maglia della Celeste.
Ma come è possibile che una nazione così piccola abbia raggiunto risultati così straordinari? La risposta sta nella passione, nel talento e nella cultura calcistica che permeano l’Uruguay fin dalle sue origini. Il calcio è lo sport nazionale, praticato da bambini e adulti in ogni angolo del paese. E questa passione si traduce in una produzione costante di talenti, che hanno fatto grande l’Uruguay nel corso degli anni.
Gli anni ’20 e ’30 del XX secolo furono senza dubbio l’epoca d’oro del calcio uruguaiano. La Celeste dominava la scena internazionale, grazie a una generazione di fenomeni come José Leandro Andrade, Héctor Scarone, Pedro Petrone e molti altri. Nel 1924 e nel 1928, l’Uruguay vinse le Olimpiadi di Parigi e Amsterdam, dimostrando la sua superiorità anche in un torneo che all’epoca era considerato il più importante al mondo.
Nel 1930, l’Uruguay organizzò e vinse la prima edizione della Coppa del Mondo, battendo l’Argentina in finale davanti a 93.000 spettatori allo Stadio Centenario di Montevideo. Fu un trionfo storico, che consacrò l’Uruguay come la prima grande potenza del calcio mondiale.
L’egemonia dell’Uruguay durò per un decennio, fino a quando l’Italia guidata da Vittorio Pozzo non prese il suo posto negli anni ’30, vincendo due Mondiali consecutivi nel 1934 e nel 1938. C’è però un aneddoto sul 1934, perché l’Uruguay alla seconda edizione del Mondiale decide di dare forfait in risposta alle squadre europee, che quattro anni prima non vollero andare in Sud America per la prima edizione. Il Mondiale si giocò in Italia ma i campioni del mondo in carica non parteciparono (prima e unica volta nella storia della manifestazione).
Il boicottaggio della Celeste, forse, ha cambiato anche il destino dell’Italia, ma è una di quelle sliding doors della storia a cui nessuno può dare una risposta. L’ultimo apice dell’Uruguay ai Mondiali fu una delle imprese più iconiche della storia del calcio. La Celeste nel 1950 appuntò sulla maglia la stella più luminosa, vincendo il suo secondo Mondiale in Brasile, nel famoso “Maracanazo” contro i padroni di casa.
Il Maracanazo e gli “angeli con la faccia sporca”
In un Maracanà stracolmo e pronto a festeggiare la vittoria nel suo primo Mondiale da paese ospitante, un Brasile tronfio e già certo della vittoria si trova di fronte l’Uruguay scafato e irriverente, ma strabordante di talento di Ghiggia e Schiaffino, gli “angeli con la faccia sporca”. Nel secondo tempo Albino Friaça segna e porta i verdeoro in vantaggio. Lo stadio è una bolgia ma mentre tutti sono occupati a festeggiare, succede qualcosa in campo.
Obdulio Varela si avvicina all’arbitro: durante l’azione del goal il guardalinee ha alzato e subito abbassato la bandierina. Il capitano uruguaiano vuole una spiegazione. È il 1950 e ognuno parla solo la propria lingua. Obdulio chiede un traduttore per comunicare con l’arbitro, da grande “Caudillo” sa che deve perdere tempo per togliere entusiasmo al Brasile e permettere ai suoi di riordinare le idee.
Passano otto minuti prima che Varela sia in grado di farsi capire dall’arbitro e la partita riprenda. Un tempo infinito. Svanisce la gioia dei tifosi, scivola via come un balsamo applicato male, e impercettibilmente la gioia si tramuta in qualcos’altro. Frustrazione e rabbia. Obdulio lo sa: la sua non è stata improvvisazione, ma un’intuizione brillante. Invece di riportare velocemente la palla sul calcio d’inizio, Obdulio ferma il tempo. Trasforma l’entusiasmo e la frenesia dei “leggendari” 200 mila brasiliani in frustrazione.
Quando la partita ricomincia, cambia come per magia. L’Uruguay prima pareggia con Schiaffino per poi segnare il gol della vittoria con Alcides Ghiggia. La Celeste è campione del mondo. Lo stadio piomba nel silenzio. La situazione è surreale: le celebrazioni, pronte da giorni, vengono cancellate. Le autorità brasiliane se ne vanno, l’intera nazione è in lacrime. Secondo la leggenda, quella notte si suicidano un numero mai stimato, ma con stime superiori al migliaio, tifosi brasiliani. Per la stampa è “la più grande tragedia nella storia del Brasile”.
L’atmosfera dopo la partita è lugubre. La gente per strada è in lacrime. In un attimo anche la gioia della vittoria cambia. Manca qualcosa: il calcio, come la felicità, è reale solo quando è condiviso, e gli uruguaiani lo sentono sulla propria pelle. È il Maracanazo, parola che entrerà da quel giorno nel vocabolario dei brasiliani sostituendo la parola disastro. “Hai combinato un maracanazo…” è ancora oggi di uso comune: colpa di capitan Varela e dell’irriverenza di Schiaffino e Ghiggia, che di lì a poco sarebbero sbarcati nel nostro campionato anche grazie a quell’impreso.
Quella sera, racconta Obdulio, il capitano uruguagio vaga per Rio de Janeiro con due compagni. Entra in un bar per bere una birra. Improvvisamente, la porta si apre ed entra un uomo obeso con il viso rigato dalle lacrime. Continua a ripetere “Obdulio ci ha fregati”. I giocatori lo guardano. A quel tempo le facce dei calciatori erano sconosciute, a eccezione di quelle dei capitani. Ma Obdulio Varela è un hombre vertical, odia i giornalisti e la stampa, e non è mai stato ritratto in foto con il resto della squadra.
L’uomo continua a piangere e insultare Varela. In un momento di follia, un amico di Varela avvisa il ragazzone che Obdulio si trova di fronte a lui in carne e ossa. Cala il silenzio. L’uomo si gira e punta il capitano. Poi, inspiegabilmente, lo abbraccia. “Ero convinto che quella notte sarei morto” dirà Varela successivamente.
Dopo il Maracanazo, l’Uruguay una storia di talenti regalati al calcio
Da allora, l’Uruguay non ha più vinto un Mondiale, ma ha collezionato Coppe America, ha continuato a sfornare talenti di livello mondiale, come Enzo Francescoli, idolo di gente del calibro di Zidane e Baggio, Álvaro Recoba, primo amatissimo acquisto di Massimo Moratti da presidente dell’Inter, Diego Forlán, Luis Suárez e Edinson Cavani, che qualche ricordo positivo a Napoli l’ha lasciato, solo per citarne alcuni dei tanti giocatori che hanno lasciato il segno nella storia del calcio.
Ad oggi l’Uruguay è ancora una fucina di talenti, paragonabile in Europa (forse) solo alla Croazia, un’altra nazione piccola ma con una grande tradizione calcistica. Ma in proporzione alla popolazione, l’Uruguay è ancora la nazione che produce più calciatori professionisti al mondo.
Le quattro stelle sulla maglia dell’Uruguay sono quindi il simbolo di una storia gloriosa, di una passione inesauribile e di un talento senza confini, compresso in appena tre milioni e mezzo di abitanti. A distanza di un secolo dall’epoca d’oro degli anni ’20, l’Uruguay resta una nazione che ha fatto del calcio la sua bandiera, e che inevitabilmente continuerà a sfornare fenomeni. Chissà, magari prima o poi nascerà un’altra generazione d’oro che porterà la Celeste ad appuntarsi sul petto la terza stella mondiale o, come sostengono loro, la quinta della loro storia.
Il calcio è la mia passione in ogni sua sfaccettatura: ho giocato tanto, ho allenato altrettanto e adesso mi piace raccontarlo.