Certe serate sono emblematiche del rischio del buongiorno che può vedersi dal mattino. Quella di Roma-Empoli, terminata con un 2-1 a sfavore dei giallorossi, è una di quelle. Ma più che di tattiche e schemi, qui si parla di uomini. Di quelle scelte che, come cicatrici, rimangono e continuano a pulsare nel tempo. Una partita che sembrava scritta ancor prima del fischio d’inizio, come se il destino, beffardo, avesse già deciso tutto: la Roma si è ancora una volta incaponita sul suo zoccolo duro, calciatori che hanno avuto anche minutaggio agli Europei.
Gianluca Mancini, Bryan Cristante, Lorenzo Pellegrini. Tre nomi che, nelle ultime stagioni, sono diventati sinonimo di fedeltà alla maglia, ma anche di una resistenza al cambiamento che rasenta l’ostinazione. Uomini di fiducia, sì, ma che forse hanno esaurito la carica emotiva e tecnica per guidare la Roma verso traguardi ambiziosi. Eppure, sono ancora lì, schierati in campo come baluardi di un passato che fatica a lasciare spazio al futuro. Nonostante il passaggio da Mourinho a De Rossi, i tre sono saldi ai loro posti.
Luciano Spalletti, CT della Nazionale, ha insistito su questi stessi uomini durante un Europeo che definire fallimentare sarebbe un eufemismo. Il fallimento non è stato solo nei risultati, ma in una filosofia tattica e gestionale che sembra ripetersi, come un disco rotto, anche nella Roma. Perché allora continuare a puntare su di loro?
La partita contro l’Empoli non è stata altro che un riflesso di quel fallimento. Una Roma che sembrava muoversi a fatica, come se portasse sulle spalle il peso di un passato glorioso ormai lontano e di aspettative mai realmente soddisfatte. Mancini, Cristante, Pellegrini: tre nomi che avrebbero dovuto rappresentare l’anima della squadra, e che invece ne hanno mostrato tutte le fragilità.
C’è una linea sottile che separa la fiducia dalla testardaggine, e la Roma sembra averla oltrepassata. Insistere su questi uomini, su questo zoccolo duro, potrebbe costare caro. Non è più solo una questione di risultati, ma di identità. Un’identità che sembra ormai legata a doppio filo a scelte che non premiano il coraggio, ma la continuità di chi ha dato tanto, forse troppo, senza più nulla da offrire.
L’Empoli, squadra operaia ma con idee chiare, ha dimostrato che nel calcio moderno non c’è spazio per i sentimentalismi. Si gioca per vincere, si gioca per migliorarsi. E la Roma, se vuole tornare a competere ai massimi livelli, deve fare i conti con il fatto che, a volte, il cambiamento è necessario.
L’ostinazione di aggrapparsi a ciò che si conosce bene è comprensibile, ma il calcio è anche, e soprattutto, un gioco di visione. Una visione che, al momento, sembra mancare nella Roma. E mentre il tempo passa, la domanda sorge spontanea: fino a quando questa testardaggine sarà giustificabile?
Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione