«Quando ero piccolo, mio nonno ha perso il portafoglio in casa, io l’ho raccolto e all’interno c’erano due foto, una di Padre Pio e l’altra di Rivera, allora ho chiesto al nonno chi fosse quel signore e lui mi ha risposto: “Un uomo che fa miracoli” e l’altro? “Un popolare frate pugliese”…da quel momento ho scelto i colori rossoneri».
Parole e musica di Diego Abatantuono, che racconta come è diventato tifoso del Milan. Quell’uomo dai capelli folti e scuri era “magnetico” per l’allora giovane attore, che giurò subito la sua fedeltà ai rossoneri. Gianni Rivera ha trasceso i volti mutevoli dell’Italia, del Milan e del calcio a livello globale.
Raramente il nome di Gianni Rivera compare in una frase che non è piena di superlativi. Per la riverenza che gli altri nutrono nei suoi confronti e per il suo stile pionieristico, è considerato l’archetipo di un determinato tipo di giocatore, quello che oggi chiameremmo il classico numero 10.
Gli inizi
Il trequartista nativo di Alessandra aveva una preveggenza sciamanica nel capire la posizione dei suoi compagni di squadra e degli avversari. Come i grandi degli scacchi, riusciva a posizionarsi in base al movimento degli altri calciatori in campo. Il suo gioco posizionale e la sua capacità di individuare e sfruttare lo spazio, con una corsa intelligente o un passaggio filtrante, non avevano eguali ai tempi in cui giocava.

Da ragazzino, al piccolo Gianni piaceva inseguire la sfera di cuoio, prenderla a calci, giocare con i compagni nell’oratorio, nelle strade e sui campi di cemento. Le terre erano invece riservate alle colture. La sua massima aspirazione era quella di diventare ragioniere, eppure mentre giocava al Don Bosco fu notato dall’Alessandria, squadra della sua città. Il suo primo allenatore, Giuseppe Cornara, ne intravide qualità da campione e ne esaltò la tecnica. Cornara, alessandrino, da ragazzo segnò caterve di gol con il Taranto e, tornato in Piemonte, fece bene anche con la maglia della squadra della sua città.
Predestinato e vero e proprio golden boy, Rivera fece il suo esordio in prima squadra ad appena 14 anni in un’amichevole contro gli svedesi dell’AEK. A 15 anni l’esordio da professionista in Serie A con l’Alessandria, ma il giovane Gianni era già stato acquistato in comproprietà dal Milan, a cui si sarebbe unito nel 1960. Al suo debutto, avvenuto nel 1958, il tecnico Pedroni gli disse: «Tocca a te, Gianni. Non riusciamo a trovare un centravanti che riesca a fare dei gol. Prova da punta e speriamo in bene». Non segnò, ma nella stagione successiva con l’Alessandria, la prima da titolare in Serie A, mise a segno sei reti.
Che tipo di giocatore era Rivera
Sebbene avesse caratteristiche che gli permettevano di occupare diverse posizioni, dal regista alla seconda punta, Rivera era sin dagli albori un calciatori in grado di far apparire un qualcosa dal nulla. La sua visione di gioco fuori dall’ordinario gli consentiva di far giocare meglio tutta la squadra e organizzare il gioco nel migliore dei modi. Oggi parleremmo di “calciatore associativo”.
Eppure non era un mero organizzatore di gioco. Il contributo in termini di gol e assist era notevole. Queste capacità fanno parte del mosaico che crea il quadro completo di Gianni Rivera. La sua influenza poliedrica su ogni partita ha fatto sì che dai suoi piedi potesse sorgere una miriade di possibili combinazioni di gioco. Il suo stile era iconico. C’è chi lo ha paragonato a Baggio o Cruyff, mentre molti lo paragonano invece a Zidane, vista la porzione di campo occupata e la genialità delle giocate.
Come il francese, Rivera si rendeva protagonista di veroniche, piroette e giocate da spellarsi le mani, nonché cambi di ritmo repentini. L’intelligenza calcistica dei due era fuori dall’ordinario e purissima. La combinazione di visione, creatività e intelligenza con la maglia del Milan e dell’Italia ha portato Rivera a diventare uno dei calciatori più venerati nella storia del calcio.
Conosceva i suoi punti di forza e riusciva a tirarli fuori. Ma conosceva anche i suoi punti deboli e cercava di migliorare o mascherarli, fungendo da pioniere nel ruolo che oggi definiamo semplicemente e in maniera semplicistica come playmaker. Gianni Rivera è stato un centrocampista tecnico totale. Era allo stesso tempo regista, trequartista e fantasista. Un regista è colui che detta il ritmo di gioco. Un trequartista è colui che opera dietro le punte. Un fantasista è invece colui che riesce a creare un qualcosa dal nulla.
Nereo Rocco, succeduto a Gipo Viani alla guida del Milan, preferì il giovane “Signorino” al genio inglese Greaves. Quell’inglese fortissimo, ma indisponente e poco disciplinato. Stefano Bedeschi ha raccontato un aneddoto a riguardo.
«Vengo a sapere che Jimmy Greaves, dopo la terza o quarta birra, prende a calci un gatto chiamato Rocco. Chiedo un commento al Paròn, che fa finta di niente ma esige spiegazioni in sede: il controllo sull’appartamento dell’inglese in via Giovanni da Procida si fa così assiduo che, dopo due mesi, Greaves scappa. Rivera torna in prima squadra e dal Brasile arriva Dino Sani».
Gianni Brera lo definiva L’Abatino anche per una struttura fisica troppo leggera. D’altronde parliamo di un ragazzo affacciatosi nel grande calcio ad appena 17 anni. Nils Liedholm, Dino Sani e José Altafini sono stati tra i compagni più determinanti per la sua crescita. La loro influenza su un giovane Rivera gli ha dato una comprensione olistica del gioco del calcio, aiutandolo a superare qualsiasi carenza fisica.

Il suo bottino è stato illustre, aiutando il Milan a vincere tre Scudetti, quattro Coppe Italia, due Coppe dei Campioni e, a livello individuale, il Pallone d’Oro del 1969. Persino Giuseppe Meazza ne tesseva le lodi, soprattutto sul tocco di palla e l’eleganza. Durante il suo primo periodo come tecnico del Milan, tra il 1961 e il 1963, Nereo Rocco costruì il suo famoso sistema votato al catenaccio attorno al giovane Rivera, in funzione della sua creatività e della sua predilezione per le giocate offensive, in modo da controbilanciare il proprio approccio prevalentemente difensivo.
Il rapporto conflittuale con la stampa italiana
Con Gianni Brera vigeva un rapporto di amore-odio. Il celeberrimo giornalista di San Zenone al Po gli diede 9 in pagella dopo un Bologna-Milan, qualche tempo dopo avergli mosso delle critiche, unite a complimenti non troppo velati: «Penso che Rivera sia un grandissimo stilista, molto intelligente, e come tale in grado sempre di intuire quale sia la situazione migliore per sé. Non sa correre, non è un podista, altrimenti sarebbe un grandissimo interno. Invece lui per me è un mezzo grande giocatore».
Si può dire che Rivera fu il primo calciatore italiano a scagliarsi contro la stampa in maniera polemica. D’altronde il noto storico del calcio John Foot affermava: «Rivera non fu mai universalmente amato, e fu oggetto di una delle campagne giornalistiche a sfavore più intense nella storia dello sport». Alla consegna del Pallone d’oro, Rivera dichiarò: «evidentemente i giornalisti francesi non leggono certi giornali italiani».
Tra i suoi estimatori c’era Enzo Sasso del Corriere dello Sport: «si pretende da lui il massimo e quello che si perdona ad un Corso o ad un Bulgarelli non si perdona a Rivera; non gli si perdona niente, ecco la verità. Si fruga nella sua vita privata, lo si fa apparire come un piantagrane, si specula sulla sua non elevata prestanza fisica. In poche parole si fa l’impossibile per distruggerlo moralmente». Difatti Rivera fu visto come il capro espiatorio della disfatta contro la Corea del Nord. Ad esempio Brera accusò Rivera per l’eliminazione dell’Italia «non tanto per le prestazioni del milanista, quanto per la sua influenza sul tipo di gioco adottato dagli azzurri».
Ai Mondiali del 1970, fu famosa la tanto criticata staffetta con Sandro Mazzola. Una buona fetta della stampa italiana asseriva che il centrocampista dell’Inter svolgeva un lavoro di cucitura che quello del Milan non era in grado di fare. I suoi difensori criticarono invece la scelta del CT Valcareggi di non convocare il suo “luogotenente” Lodetti, privandolo pertanto di un punto di riferimento.

A riguardo, Rivera dichiara, con una critica chiara al CT: «Può darsi mi abbiano messo apposta in questa condizione, non facendomi giocare fra i titolari nella partita di mercoledì per provocarmi, per farmi parlare e giustificare la mia esclusione con i motivi disciplinari. Ma non è questo il modo di agire, preferisco che le cose mi vengano dette in faccia».
Dopo la sconfitta in finale contro il Brasile, Valcareggi tentò di giustificarsi con spiegazioni tattiche, affermando che l’inclusione di Rivera nell’undici titolare “avrebbe allungato pericolosamente la squadra”. Quel Rivera che invece era stato decisivo nella partita del secolo contro la Germania. Fatto sta che da questa scelta, secondo Foot, «derivò l’ostile accoglienza tributata alla squadra al ritorno in Italia, con molti tifosi che esposero striscioni con la scritta: “Viva Rivera”».
Un gentiluomo nel calcio
La sua propensione alla polemica potrebbe dare un’idea sbagliata di Gianni Rivera, facendo pensare a un uomo spigoloso e scorbutico. In realtà era una persona schietta, che non amava le ingiustizie.
Con il Milan ha vinto tutto quello che c’era da vincere ed è inserito in tante top 11 del club rossonero. Lo stesso Nereo Rocco nutriva un stima infinita per lui, sia come calciatore sia come uomo. «Si, non corre tanto, ma se io voglio avere il gioco, la fantasia, dal primo minuto al novantesimo l’arte di capovolgere una situazione, tutto questo me lo può dare solo Rivera con i suoi lampi. Non vorrei esagerare, perché in fondo è soltanto football, ma Rivera in tutto questo è un genio».
Gianni Rivera era venerato per la sua vita di calciatore, ma anche per la sua personalità fuori dal campo. Figura carismatica e affabile, rimase nei ranghi del Milan anche dopo aver appeso le scarpe al chiodo, lavorando con la società e diventando infine vice-presidente. Nel 1986, Silvio Berlusconi acquistò il Milan e, come azionista di maggioranza, si nominò presidente. Le idee politiche di centro-destra del magnate italiano dell’imprenditoria si scontrarono con quelle di sinistra di Rivera. Uomo di principio, lasciò San Siro dopo l’acquisizione da parte di Berlusconi.

Nel 2011 è stato insignito dell’UEFA President’s Award. Michel Platini ha detto di lui: «Gianni Rivera è sicuramente uno dei grandi ambasciatori del calcio sia a livello di club che di nazionale, avendo indossato la maglia del Milan più di 500 volte e rappresentato la sua nazione in quattro campionati del mondo. È stato un vero gentiluomo, sia dentro che fuori dal campo di gioco, ed ancora oggi è rimasto tale».
La parola “mercenario” è oggi utilizzata spesso nello scagliarsi contro certi calciatori. Alcuni tifosi capiscono che la carriera calcistica è di breve durata e che i giocatori sono molto ambiziosi in termini di prestigio e denaro. Tuttavia, noi desideriamo ancora il tipo di stelle che giocano veramente per ila maglia. Le maglie rappresentano una storia di famiglia e di amicizia, di alti e bassi, di vittorie e sconfitte. A inizio anni ’60, prima dell’era Rocco, il Milan non era una squadra “di grido”. Lo è diventata grazie a un mix di tecnici e fuoriclasse in campo.
Quando un calciatore bacia lo stemma sulla maglia di fronte a una folla in tumulto e dedica tutta la sua carriera a una squadra, va sempre lodato e apprezzato. Per questo i milanesi amano Gianni Rivera, e in definitiva tutti gli appassionati di calcio non possono non amare un fuoriclasse iconico come lui.
Vincenzo Di Maso

Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione