Luisito Suarez ci ha lasciati all’età di 88 anni. Dover decidere di inserire un calciatore tra i campioni o i fuoriclasse spesso non è semplice. Luisito Suarez viene spesso trascurato. Nelle valutazioni odierne i calciatori che sono stati protagonisti 50 o 60 anni fa vengono spesso trascurati.

Luisito Suarez aveva le doti per ricoprire qualsiasi ruolo offensivo. Con la sua tecnica, il suo dribbling rapido e le sue capacità di conclusione, avrebbe potuto giocare in attacco, magari da seconda punta, magari alla Roberto Baggio. Invece decise di diventare un direttore d’orchestra, un organizzatore di gioco, un “architetto”. Questo soprannome gli fu assegnato da Alfredo Di Stefano, grande rivale del Real Madrid. In campo tra i due non c’era grande feeling, ma fuori dal rettangolo di gioco la stima per le rispettive capacità era enorme. Gianni Mura lo ha definito “un po’ ballerino un po’ torero”, in quanto univa grande corsa alla sua tecnica sopraffina. Maestro del lancio lungo, Suarez ha affermato che oggi si usa poco perché in pochi sono capaci di farlo.

Suarez è cresciuto nelle giovanili del Deportivo La Coruña. Da piccolo era molto esile e il padre lo reputava troppo leggero per giocare a calcio. Proprietario di una macelleria, lo riempì di bistecche al sangue per farlo rafforzare fisicamente. Suarez non ha mai sviluppato un fisico robusto (“Non devo mica fare il pugile”), ma lo ha costruito quel tanto che basta per non essere sopraffatto dagli avversari. «Mio padre Augustin aveva una macelleria in calle Hercules, una zona popolare abitata da pescatori e operai. C’era una fabbrica di armi, lì vicino. Ero troppo giovane per capire cos’abbia rappresentato la Guerra civile, poi è arrivata la seconda Guerra mondiale. I tre fratelli di mio padre sono partiti per Buenos Aires, molti galiziani negli anni ’40 e ’50 hanno scelto la rotta del Sudamerica, dell’Argentina in particolare».

La sua classe era evidente e il Barcellona lo fece osservare e se ne accaparrò le prestazioni prima che esordisse con la squadra galiziana. Sebbene abbia giocato più partite con la maglia dell’Inter e abbia vinto più trofei con i nerazzurri, Luisito si sente più legato ai Blaugrana. Ne è un esempio emblematico il fatto che nel 2010 abbia tifato per il Barcellona nella semifinale di Europa League contro i nerazzurri. Curioso il fatto che, vivendo a Milano, si rechi in Spagna per andare a Madrid o a Barcellona ma non nella nativa Galizia, dove non ha più legami.

Proprio al Barcellona ha avuto la meglio di un certo Kubala, calciatore che ha fatto la storia dei Blaugrana, ma al quale Helenio Herrera preferiva questo ragazzino galiziano. Herrera è stato l’uomo del destino di Suarez, l’allenatore che ha creduto in lui sin dall’inizio. «Un grande, in anticipo sui tempi, ossessionato dalla velocità di gioco, di reazione, di pensiero. Anche i suoi allenamenti: duravano la metà degli altri, ma alla fine eri stanchissimo per l’intensità che richiedevano. Preparava le partite con il massimo d’informazione, per quei tempi. Aveva amici e informatori ovunque. E sapeva come caricare i giocatori. A Bicicli disse che era forte come Garrincha. Forse quella volta esagerò. Io del Mago posso solo parlar bene, se non ci fosse stato lui non avrei mai accettato di spostarmi dalla Spagna. Sono stato il primo spagnolo a venire in Italia, l’anno dopo la Juve prese Del Sol. In quegli anni la Spagna era più povera dell’Italia, ma un calciatore stava bene, non si muoveva, come del resto nessun calciatore emigrava dall’Italia».

In Blaugrana ha giocato otto anni, facendo incetta di trofei e arrivando a conquistare il Pallone d’oro nel 1960. Helenio Herrera gli aveva affidato la consegna di organizzatore di gioco e farò della squadra, una consegna che il giovane Luisito svolgeva da manuale nonostante la giovane età. Stiamo sempre parlando di un calciatore con qualità da seconda punta, che decise di arretrare il raggio d’azione e fungere da sole intorno al quale ruotavano gli altri pianeti.

Helenio Herrera se lo portò all’Inter e anche in nerazzurro rinunciò al calciatore più rappresentativo e ingombrante per fare spazio a Suarez. Dopo Kubala, Herrera fece cedere un certo Angelillo. Anche a Milano sponda nerazzurra la scelta si rivelò azzeccata. Dopo gli anni all’Inter, il tecnico sudamericano non ha avuto dubbi su chi fosse stato il calciatore più fondamentale: «Tra tante pedine importanti, Suarez era quella importantissima». Era l’Inter Mondiale, una squadra dominante per l’epoca, che annoverava, tra gli altri, anche campioni del calibro di Facchetti, Burgnich, Picchi o Mazzola.

La Grande Inter vinse due Coppe Campioni e Due Coppe Intercontinentali, oltre agli scudetti. Suarez racconta di quell’Inter Mondiale e dell’avventura in nerazzurro:«Avventura è il termine giusto, perché nel 1961 non è che l’Inter fosse al vertice europeo. Ci puntava, per questo aveva preso il Mago e, di conseguenza, il Mago aveva convinto me, ma senza grandi discorsi. Poi s’è detto che io ero l’anima di quell’Inter, ma non è vero. Quell’Inter aveva molte anime, da Facchetti a Corso, da Picchi a Mazzola. Io ero l’esperienza, questo penso. Esperienza internazionale, anche. Al di là del nome della squadra e con l’eccezione di Herrera, nessuno all’Inter ne aveva come me. La stessa esperienza che mi ha portato a cambiare gioco, all’Inter».

Suarez nella finale di Coppa Campioni tra Inter e Benfica nel 1960-1961.

Nel 1967, nella finale di Lisbona contro il Celtic, Luisito non scese in campo e fu sostituito dal modesto Bicicli: «A Lisbona io e Jair non avevamo giocato per degli acciacchi muscolari e questo ebbe un peso nella sconfitta, perché allora non c’erano le rose interminabili di adesso, un campionato lo giocavi con sedici o diciassette giocatori più qualche ragazzo della Primavera. Riuscimmo a recuperare per la trasferta di Mantova che sulla carta sembrava una formalità. Perdemmo uno a zero, e ci cascò il mondo addosso. Eppure non credo che il ciclo si sarebbe chiuso lì, se Herrera non avesse deciso di rivoluzionare la squadra. Insomma, eravamo arrivati in finale di Coppa, avevamo fatto il campionato in testa, non è che fossimo divenuti dei brocchi. Invece Herrera decise di andare in cerca di novità a tutti i costi. L’anno dopo arrivammo quinti. La grande Inter finì così». Non era certo il calcio di oggi «Era diverso il rapporto con la città, con la gente, non avevi addosso l’ attenzione di oggi. Eravamo dei calciatori e basta, non una via di mezzo tra degli attori e dei fotomodelli. E il calcio che giocavamo era senza dubbio meno dinamico, ma dal punto di vista tecnico eravamo mille miglia avanti a quello di oggi».

Dopo la sua trionfale avventura in nerazzurro, l’addio non fu tra i più commoventi: «Mi chiama il presidente Fraizzoli, allenatore era Heriberto Herrera. Il mister dice che tu e Corso non potete giocare insieme. E io: meno male che è arrivato adesso, sennò avremmo meno trofei. Poi gli ho detto: presidente, venda me. Ho 35 anni, Mariolino 29. Così mi sono ritrovato alla Samp col mio amico Lodetti. Lippi era un ragazzo. Però anche qui ho un rimpianto. Quell’estate, prima che firmassi per la Samp, venne a trovarmi Scopigno: Luisito, il Cagliari farà la sua prima Coppa dei Campioni, ho bisogno di uno come te e della tua esperienza. Grazie no, dissi. E forse sbagliai».