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Nell’immaginario collettivo, il quarto d’ora granata è un momento in cui ciò che sembrava impossibile si realizza, in cui un ostacolo che sembrava insormontabile viene aggirato e scalzato e superato a colpi di tenacia e perseveranza. Il quarto d’ora granata si materializzava quando Valentino Mazzola si rimboccava le maniche e suonava la carica per l’assedio del Toro.

Tanto era grande il suo potere non solo di cambiare una partita da solo, ma anche di caricarsi sulle spalle tutta la squadra, una corazzata impossibile da fermare una volta che Valentino Mazzola dava vita a tutto quel furore. Quando iniziava ad ignorare tutto il dolore per i colpi aggressivi che aveva subito, per tutti quei palloni che aveva inseguito invano, una volta che quelle maniche si erano alzate, era finita la partita.

Se non fosse stato per gli eventi del 4 maggio 1949, Valentino Mazzola sarebbe stato ricordato tra i migliori giocatori di tutti i tempi. Quel giorno i componenti del Grande Torino, la prima supersquadra emersa dopo gli eventi della seconda guerra mondiale, furono quasi tutti uccisi su una collina vicino a Torino – presso la Basilica di Superga – in un disastro aereo che causò la morte di quasi tutti i titolari non solo del Torino, ma anche degli Azzurri. Un triste appuntamento con la storia che rivive indelebile nei ricordi degli appassionati calcio.

Fuori dal campo, Valentino Mazzola era una persona riservata, un uomo severo concentrato su sé stesso e la propria famiglia. Non sarebbe mai cresciuto abbastanza per vedere suo figlio, il grande Sandro Mazzola, diventare lui stesso un eroe della serie A e della nazionale, o per assistere all’ascesa degli svedesi a Milano, o a uno dei tanti altri grandi capitoli del calcio italiano. Il disastro di Superga ha sottratto tanti sogni a tante persone. E ha cambiato il corso della storia in tanti modi.

Sandro Mazzola racconta papà Valentino:

Valentino era originario di Cassano d’Adda, in provincia di Milano, dove suo padre si arrangiava a svolgere vari lavoretti. Fu mentre il padre perdeva tutto ciò che aveva dopo il crollo di Wall Street del 1929 che un giovane Valentino iniziava a dare i primi calci a un pallone e muoveva i primi passi sulla strada della gloria.

Fu qui, per le strade di Cassano d’Adda, che Valentino prese il soprannome di Tulen, che colloquialmente significa “lattina”, dandoci un indizio sulla sua prima vita. Valentino Mazzola lavorava quelle lattine che usava come palloni da calcio come un maestro lattoniere, facendole cantare al suo ritmo. Erano il suo scudetto delle strade, una zona di periferia non lontana da una Milano industriale e con voglia di emergere, dove Valentino e i suoi quattro fratelli sono cresciuti.

La leggenda di Valentino come eroe è iniziata in tenera età, quando giocava vicino al fiume Adda e notò un ragazzino in preda alla corrente. Valentino, impavido come sempre – qualità che avrebbe poi dimostrato dinanzi a una nazione interna che lo guardava – si tuffò in acqua e salvò un giovane Andrea Bonomi dall’annegamento. Bonomi, soprannominato Ciapin, aveva quattro anni meno di Valentino, ma sarebbe sopravvissuto a Mazzola e sarebbe diventato lui stesso un calciatore famoso, capitano del Milan e campione d’Italia nel 1950-1951. L’aura di coraggio e di altruismo stava iniziando a emergere, e gli eventi salienti della vita di Mazzola erano ormai in corso.

Mazzola iniziò a giocare a calcio nel quartiere locale con il Tresoldi e poi con il Fara d’Adda. Dal 1934, quando Valentino aveva 15 anni, fino al 1937, giocò in quelle due squadre fino a quando non fu notato da un talent scout dell’Alfa Romeo.

La cartolina e francobollo di Poste Italiane dedicati a Valentino Mazzola

L’Alfa Romeo è stata una benedizione per il giovane Mazzola e la sua famiglia. Il padre di Valentino era rimasto ucciso in un incidente con un camion e la famiglia era in difficoltà economiche fin dalla sua morte. La possibilità di giocare per l’Alfa Romeo, infatti, arrivò anche con un’offerta di lavoro per diventare meccanico e imparare un mestiere, cosa rara a quei tempi con pochi posti di lavoro e di minori opportunità di manodopera non qualificata. Valentino colse al volo l’occasione per giocare la partita che amava tanto e per aiutare a sostenere la sua famiglia che stava lottando così duramente. Facendo leva sulla sua maturità e la sua leadership, ha abbracciato le sfide che la vita gli ha posto di fronte.

Come per tanti giocatori dell’epoca, la guerra era all’orizzonte e nella mente di tutti coloro che praticavano questo sport. Il secondo conflitto mondiale colpì l’intero Paese perché il fascismo era diffuso e tutti i giovani erano tenuti a fare il loro dovere al servizio di Benito Mussolini. Mazzola non fece eccezione: fu chiamato a prestare servizio e si arruolò su una nave della Marina Militare italiana. Prestò servizio per un periodo nei pressi di Venezia e fu durante questi lunghi e bui giorni che Valentino si dedicò all’istruzione per acquisire le qualifiche necessarie per poter lavorare dopo aver concluso la carriera (all’epoca i calciatori non ricevevano certo stipendi paragonabili a quelli attuali), dimostrando la sua autodisciplina e la sua determinazione a migliorare se stesso. Temeva di essere chiamato direttamente in guerra, ma le sue doti calcistiche e un po’ di fortuna gli impedirono di dover servire in prima linea.

Mazzola continuò a giocare a calcio e ad allenarsi duramente in questo periodo: dal 1939 al 1942 disputò 61 partite con il Venezia e cominciò ad affinare e perfezionare il suo gioco. Già ottimo centrocampista, Mazzola si stava trasformando in quello che oggi potremmo definire un centrocampista “box-to-box”, in grado di giocare anche falso nueve. Il suo gioco era così versatile che poteva giocare virtualmente in qualsiasi posizione in campo, anche da portiere. Studioso del calcio, dopo aver soddisfatto la sete di conoscenza che lo portava a studiare e apprendere come meccanico, Mazzola passava ore ad imparare la complessità del calcio e come poteva influenzare il questo sport attraverso un miglior posizionamento.

Il suo piede naturale era il destro, ma passava ore con un pallone e un muro a lavorare per migliorare il suo piede sinistro, più debole, per essere in grado di calciare indifferentemente con ambo i piedi e giocare su ambo le fasce. Nel calcio di oggi si tratta di un requisito obbligatorio, mentre per l’epoca Mazzola era decisamente all’avanguardia. La sua ambizione era quella di essere il giocatore perfetto, si rifiutava di essere etichettato come centrocampista, attaccante, esterno, etc…

I colpi inferti dagli avversari erano spesso pesantissimi ma lui si allenava per raggiungere uno stato zen, provando a ignorare il dolore. Sviluppò una spiccata abilita nel colpo di testa, nonostante fosse decisamente più basso rispetto ai difensori avversari ma, grazie alla sua coordinazione, riuscì a colmare questo gap, diventando insidioso anche sui traversoni dei compagni. Era il prototipo del calciatore moderno nel gioco di oggi, con decenni di anticipo rispetto ai suoi tempi, sia tecnicamente che professionalmente.

Nel 1942 Valentino Mazzola fu portato a Torino dal presidente Ferruccio Novo per la somma di 1,3 milioni di lire. Assieme a lui arrivò anche la mezzala Ezio Loik, che contribuì a far diventare l’ex compagno di squadra un pilastro del Grande Torino.

Mazzola e Loik avevano giocato insieme a Venezia, con Ezio che era un po’ paranoico mentre Valentino era un leader carismatico. Questi due hanno composto l’accoppiata perfetta per gestire il centrocampo. Avevano un senso quasi telepatico delle rispettive posizioni e combinavano a meraviglia. Insieme hanno vinto la Coppa Italia con la maglia del Venezia. I due avevano da poco debuttato con gli Azzurri, giocando insieme in una partita contro la Croazia vinta per 4-0. Il sodalizio sarebbe durato fino alla loro morte a Superga.

Erbo Ernstein

Mazzola e Loik arrivarono al Torino con grandi speranze, nonostante la consapevolezza che la guerra avrebbe potuto cambiare tutto in un attimo, cosa che alla fine fece. Dopo la stagione 1942 la Serie A rimase inattiva per due anni in quelle che oggi sono definite le “stagioni delle guerra”. Per quei due anni i giocatori e gli allenatori si allenavano e giocavano ancora alcune partite mentre la guerra infuriava, mentre la vita di Erno Erbstein (che nel frattempo si trovava in Olanda) fu travagliata.

L’allenatore e direttore tecnico ungherese, colui che li aveva portati al Torino, fu costretto a tornare a Budapest. In quanto ebreo, non ebbe la possibilità di recarsi in Olanda quando allenava il Feyenoord. Il ritorno nella capitale magiara fu reso possibile da Ferruccio Novo, il quale lo fece rientrare clandestinamente in Italia (facendogli italianizzare il cognome in Egri). Alla fine del confitto, tornò al Toro sempre in veste di allenatore e direttore sportivo e morì nello schianto di Superga.

Ezio Loik e Valentino Mazzola

Erbstein era un genio. Aveva giocato a calcio a Budapest con un certo successo e aveva prestato servizio nell’esercito asburgico durante la Prima guerra mondiale nel 1916. Fu inviato sul fronte italiano e fu fortunato a dover svolgere un solo anno di servizio militare, piuttosto che i tre anni prescritti a molti della sua età.

Erbstein terminò il servizio militare per continuare la sua carriera calcistica a Budapest alla BAK, ma l’Ungheria era pronta per la rivoluzione e il suo ruolo di leader nell’esercito era visto come un vantaggio per il rovesciamento dell’attuale governo, un atto che alla fine ebbe successo. I disordini politici e il sentimento anti-ebraico dilagavano in tutta Europa ed Erbstein era abbastanza intelligente da sapere quando muoversi e quando invece temporeggiare.

Nel 1942 gli astri si allinearono quando i talenti del Torino furono riuniti sotto la guida del genio errante di Erbstein. Il tecnico aveva trovato nel Torino una squadra che poteva soddisfare la sua filosofia. Quel Torino era una squadra molto avanti rispetto ai tempi, sfruttando la velocità degli esterni e un’altissima pressione difensiva.

Il Grande Torino giocava un calcio avido e “bulimico”, come se il pallone gli appartenesse di diritto. Nella mente del condottiero, Valentino Mazzola, se l’altra squadra aveva il pallone doveva essere un errore, non lo meritava, e suonava la carica per riconquistarlo.

Una volta che il pallone tornava nelle mani del Torino, veniva giocato sul leader Valentino Mazzola. L’eroe della nazionale sapeva sempre cosa fare con la palla, sia che si trattasse di crossare, passare verso il centro o mettersi in proprio per concludersi. Ed era un calciatore totale, viste le capacità anche difensive.

Nel dopoguerra la Serie A tornò finalmente in piena attività, con il Torino a dominare il campionato. Nessun’altra squadra italiana è riuscita a raggiungere il livello di dominio dei talentuosi calciatori di Erbstein, tutti guidati dal loro leader carismatico Mazzola.

Quando Mazzola sentiva che la squadra stava peccando di concentrazione e correva poco, si alzava le maniche della maglia come segnale ai compagni di squadra per darci dentro. Erano il suo stile di gioco e la sua leadership a portare il Torino a cogliere l’attimo e a vincere la partita. Una volta, Mazzola giocò anche tra i pali, mantenendo la porta inviolata e guadagnandosi ancora più applausi dal pubblico in visibilio. La sua leggenda cresceva sempre di più.

Alla fine della stagione 1948, la nazionale azzurra era quasi interamente composta da giocatori del Torino. Tanto dominante era quella squadra che nessuno in serie A si avvicinava alle sue imprese.

L’idea di una competizione europea per club era ancora agli albori e, naturalmente, il Torino era visto come la forza dominante per vincere tutti gli onori. Solo una tragedia come quella di Superga poteva impedire che ciò accadesse. Il Real Madrid ha vinto cinque titoli di fila negli anni ’50, ma è sconcertante pensare a come la storia sarebbe potuta cambiare, in Italia e in tutta Europa, se il Torino non si fosse mai imbarcato su quel fatidico volo da Lisbona. Avremmo avuto probabilmente una gerarchia diversa nel calcio di oggi.

Mazzola, l’uomo di ferro di quel grande Torino, era un giocatore con decenni di anticipo rispetto ai tempi. Una superstar in Italia e il primo uomo copertina del. Il suo talento era innegabile e molti che lo hanno visto giocare hanno affermato, anche anni dopo, che Mazzola era semplicemente il migliore.

La tragedia di Superga ha rappresentato un danno incalcolabile, perché ha spezzato i sogni di tanti giovani nel fiore degli anni, non solo Mazzola, ma anche Loik e il grande burattinaio Erbstein, che erano arrivati al posto giusto al momento giusto per infiammare questa squadra e sprigionare i suoi talenti alla ricerca della perfezione. Il Grande Torino è oggi ricordato come una macchina perfetta, che rimarrà ai posteri nella storia di questo sport e Valentino Mazzola era il sole a cui ruotavano gli altri pianeti.

Vincenzo Di Maso