Lotta al razzismo, siamo superati dal Brasile

Il Brasile è tra i giganti mondiali, eppure resta un Paese sconfinato in cui pullulano diseguaglianze, discriminazioni e insicurezza. Chi scrive vive a contatto diretto con brasiliani costretti a cercare un futuro migliore in Europa per avere quella tranquillità che manca nel Paese sudamericano.
La storia coloniale del Brasile è variegata. L’influenza portoghese è predominante, ma prima della “scoperta” il Paese era popolato da indios locali. Successivamente sono stati deportati schiavi da varie nazioni africane. Poi sono arrivate le grandi migrazioni dall’Europa. Quella italiana è stata imponente. Basti pensare che nella sola San Paolo ben 6 milioni di persone hanno radici italiane.
Ciò ha portato, ovviamente, anche a matrimoni e unioni tra persone di razze ed etnie diverse. Basti pensare che i “caboclos” (meticcio indio e bianco) rappresentano una discreta fetta della popolazione. Vi sono poi i mulatti e i “pardos”. Questi ultimi hanno un DNA principalmente europeo ma con non trascurabili tratti neri. Basti pensare a Pepe del Porto, centrale di origini brasiliane. In media, le persone censite come “nere” hanno un DNA europeo superiore al 50%.
Salta all’occhio il fatto che negli sport di “elite” le nazionali brasiliane annoverano tra le proprie fila principalmente calciatori di razza “ariana”. La nazionale di calcio è invece quasi interamente composta da “meticci”. Ergo, in Brasile il calcio è uno sport accessibile a tutti, mentre in altre discipline sono evidenti le barriere agli ingressi.
Nonostante 4 brasiliani su 5 abbiano sangue misto, il razzismo purtroppo è una costante. Sono stati segnalati innumerevoli episodi discriminatori negli stadi. Un po’ come succede tristemente in Italia, con multe demenziali ai club.
La federazione brasiliana si è finalmente mossa in tal senso. Recita una nota che “[…] si ritiene gravissima l’infrazione di carattere discriminatorio praticata da dirigenti, rappresentanti e professionisti delle Società, atleti, tecnici, componenti della Commissione tecnica, tifosi e squadre arbitrali”. Inoltre, il resoconto della gara “sarà trasmesso anche al Pubblico Ministero e alla Polizia Civile affinché il processo non avvenga solo in ambito sportivo e i trasgressori siano puniti anche dalla legge”.
In Inghilterra hanno risolto il problema grazie a leggi thatcheriane. Chi si rende protagonista di questi spregevoli atti viene punito con la galera e fortissime sanzioni pecuniarie. Questo è uno dei motivi per cui il gap tra il calcio inglese e la nostra Serie A si acuisce. Le istituzioni nascondono la testa sotto la sabbia, minimizzano o la buttano in caciara. Persino tifosi che si ritengono di sinistra si rendono protagonisti di questi atti immondi e parlano di “goliardia”.
Il problema purtroppo esula dagli schieramenti politici. Nessun governo, né di destra né di sinistra, si è mai degnato di fermare il fenomeno. A livello sportivo ciò deve partire da FIGC e Lega. A livello giudiziario spetta al governo promulgare sanzioni.
Troppo spesso, infatti, si sorvola sul problema del razzismo, fuori e dentro il rettangolo di gioco. Senza considerare i danni inenarrabili che produce al “Sistema Calcio”.
Tuttavia, il fenomeno non è semplice da analizzare. Anche perché la palese sottovalutazione della deriva razzista da parte di tutti coloro i quali, a vario titolo ed a vario livello, dovrebbero invece contrastarla, è evidente. Nonostante in tanti (forse troppi…) facciano a gara per stemperarne gli effetti nefasti su tutto l’ambiente.
Quanto possa essere superficiale ed inadeguata la risposta di Federazioni, Leghe ed Associazioni di categoria trova la sua spiegazione ed il suo fondamento su molteplici motivi.
E tutti concorrono, in diversa misura, a rendere sostanzialmente irrisolvibile un problema ormai incancrenito. Da annoverare a pieno titolo tra i motivi che sono alla base del progressivo e costante svuotamento degli stadi.
Le Istituzioni calcistiche, nazionali e sovranazionali, almeno formalmente, si sono sempre dimostrate particolarmente attente al problema della discriminazione razziale. Promuovendo una serie di attività funzionali a veicolare il calcio come elemento di integrazione.
Iniziative lodevoli, non c’è che dire. Idonee, sulla carta, a sensibilizzare sul tema dell’inclusione. Aiutando a superare le barriere socio-culturali e favorire un maggior livello di integrazione. Ma a livello pratico non è stato fatto nulla per contrastare questi atti. Un Peppino Impastato dei tempi odierni direbbe “il razzismo è una montagna di merda”. Così come sono “m….” coloro che si rendono protagonisti di tali atti razzisti e/o discriminatori.
L’Inghilterra si è ben mossa da tempo. Il Brasile ha compiuto questo primo passo. La cultura sportiva di altri Paesi è ben radicata e i propri tifosi si astengono da certi atti. In Italia non funziona così purtroppo. Paola Egonu ha affermato senza mezzi termini che “l’Italia è razzista”. Che lo sia o meno, il problema è che le istituzioni non fanno nulla per smentirlo, tantomeno molti pseudotifosi negli stadi.
Quali sarebbero delle sanzioni adeguate per cori razzisti o discriminatori? Innanzitutto il DASPO sarebbe il minimo, ma non basterebbe. Bisogna colpire ciò a cui questi eunuchi tengono di più: il denaro. Multe di 20-30.000 euro come in Inghilterra. Rateizzazioni con interessi e, chi non riesce a pagare, finisce nei tentacoli del fisco. Tutto ciò fermo restando una pena detentiva. Utopia? Pazzia? Unicum? Non proprio!
In Inghilterra sono state comminate pene detentive anche per post sui social. In Italia si denunciano post razzisti ma per i bot che rispondono sui social, tali post “rispettano le nostre norme” (sic.). Così come rispettano le loro norme post che inneggiano alla morte di persone, post di pedofilia, misoginia, odio antireligioso, omofobia, etc. E, pertanto, andrebbero regolamentati anche i social. Fermo restando la sensibilizzazione, il razzismo lo si combatte anche, e soprattutto, con misure ferree.

Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione