Nel primo decennio degli anni 2000, Thierry Henry è stato tra gli attaccanti di movimento più forti e spettacolari al mondo, insieme naturalmente a Ronaldo il Fenomeno e a Samuel Eto’o.
Predestinato, il suo brio, l’infinita freddezza e l’incommensurabile talento lo hanno reso un personaggio accattivante e ipnotizzante, a prescindere dalle maglie che vestiva. Nel corso della sua straordinaria carriera, Henry è diventato il capocannoniere di tutti i tempi sia per la Francia che per l’Arsenal. Con i Gunners ha vinto due titoli di Premier, mentre con il Barcellona ha conquistato due volte la Liga, una Champions e il Mondiale per Club. Con la nazionale francese ha vinto un mondiale e, ahinoi, anche un Europeo.
Ma sono stati gli otto anni da Re di Highbury che lo hanno consacrato come uno degli attaccanti più forti di tutti i tempi. Uscito da Clairefontaine, Henry è uno dei tanti talenti purissimi della nidiata di giovani fenomeni del calcio francese. Da giovanissimo, con la maglia del Monaco, ha fatto vedere di che pasta era fatto. Nel Principato, Henry è diventato un giocatore di qualità sublime e ha contribuito al trionfo in Ligue One del 1996/97. Nella stagione successiva ha contribuito, con sette reti, a portare i monegaschi alla semifinale di Champions.
A 21 anni, chiamato al Mondiale di Francia 1998 da Jacquet, l’unico limite era il cielo per il ragazzo di origini antillane. Henry non fu preso da alcun timore reverenziale ai Mondiali, arrivando a segnare tre gol. Il Mondiale spinse tanti club a interessarsi a lui e ad avere la meglio fu la Juve, che tuttavia lo acquistò solo a gennaio 1999.
I sei mesi da incubo in bianconero coincisero con l’approdo di Carlo Ancelotti, ma non fu il tecnico di Reggiolo l’unico problema. Eppure le scelte tattiche incisero irrimediabilmente. Prima 4-4-2 con Henry relegato sull’esterno come ala, poi addirittura 3-5-2 con Henry a giocare da esterno di centrocampo.
«Mi hanno messo sulla fascia. Quando eravamo in fase difensiva, mi trovavo in difesa. In attacco invece dovevo fare la terza punta. Era tutto nuovo per me. Ho giocato quasi tutte le partite senza capire bene il ruolo».
Complici anche i pochi gol al Monaco, in bianconero né Ancelotti né Moggi tantomeno l’Avvocato Agnelli si accorsero che la posizione naturale di Henry era quella di attaccante. Si trattava di un ragazzo molto giovane, che aveva bisogno di tempo per poter affinare le sue doti realizzative.
Proprio Luciano Moggi è il personaggio accusato da Henry, in un’intervista con Jamie Carragher, di essere stato la causa del suo addio in bianconero.
«Moggi voleva fare un affare vendendomi e credo non sia stato rispettoso nei miei confronti ciò che fece. Se non fosse per lui, sarei rimasto alla Juventus».
Il DS bianconero voleva addirittura darlo all’Udinese in uno scambio con Marcio Amoroso, poi rifiutato dal calciatore francese. Il 4 agosto 1999, Henry approdò all’Arsenal, scrivendo la storia dei Gunners.
Con Wenger, che lo aveva lanciato al Monaco, Henry iniziò la sua metamorfosi, da esterno d’attacco discontinuo a centravanti devastante. Perso Anelka, i Gunners acquistarono un attaccante che ne avrebbe superato di gran lunga le prestazioni. Henry è diventato sinonimo dell’aura di invincibilità dell’Arsenal che si contendeva con i Red Devils lo scettro.
A nord di Londra stava nascendo una squadra che sarebbe entrata nell’élite del calcio europeo. L’astuzia e l’intelligenza calcistica di Ljungberg, che si sposavano alla perfezione con le sue doti tecniche e atletiche, contribuirono più di quanto Arsène Wenger potesse immaginare qualche anno prima mentre lo guardava in TV in quel match tra nazionali. Era un periodo in cui all’Arsenal di Wenger, con Robert Pirès, Sylvain Wiltord e Patrick Vieira, assieme alla punta di diamante Thierry Henry, era formato da uno zoccolo duro francese. Quell’Arsenal riuscì a terminare imbattuto la stagione 2003/2004.
Durante l’ascesa dell’Arsenal, Henry era un Re, un talento senza eguali, nonché attaccante completissimo. Diventato, con il passare degli anni, un finalizzatore letale, Henry possedeva anche quella qualità più rara: correre a tutta velocità con la palla tra i piedi. Come un giovane Ryan Giggs, era praticamente inarrestabile quando partiva a tutta velocità. Elegante ma letale in egual misura, era una caratteristica del suo gioco eludere i difensori prima di depositare il pallone alle spalle dei portieri avversari con un piatto rasoterra.
Questa continua ricerca dell’angolino opposto gli ha consentito di segnare ben 228 gol con la maglia dei Gunners.
Il mago francese era il tipo di calciatori che riusciva a produrre momenti che lasciavano di stucco compagni, avversari e pubblico. Le sue mix erano un mix di spettacolarità, oltraggio e genio. Henry dava libero sfogo alla sua genialità e dava l’impressione che stessimo davvero guardando un maestro artigiano all’opera.
Naturalmente, uno degli aspetti più grandi del gioco a tutto tondo di Henry è stato proprio il suo modo di muoversi all’interno della squadra. Gli Invincibili dell’Arsenal sono stati costruiti su una squadra di grande abilità, fiducia e chimica, e Henry si è inserito perfettamente nell’oceano di talenti dei Gunners.
La sua intesa con Robert Pirès e il già citato Freddie Ljungberg era telepatica. È stato questo aspetto che lo ha reso assolutamente indispensabile e immensamente popolare tra i tifosi. Henry non è stato solo uno showman e un attaccante dotato di enorme carisma, ma un vero e proprio uomo squadra, un attaccante associativo al massimo.
Dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere in Inghilterra, l’asso francese ha deciso di accettare la corte del Barcellona di Ronaldinho e Messi per puntare a vincere la Champions. Quella Champions che gli era sfuggita nel 2006 proprio contro i Blaugrana.
Henry mise a segno 19 gol nella sua prima stagione al Camp Nou, aiutando la sua nuova squadra a conquistare il triplete nel 2009, sconfiggendo i suoi vecchi nemici del Manchester United a Roma. Quel periodo coincise, tuttavia, con una macchia indelebile nella carriera di Henry, con un tocco di mano clamoroso, incredibilmente non ravvisato dall’arbitro, per effetto del quale la Francia si qualificò ai Mondiali 2010 ai danni dell’Irlanda.
Le ripercussioni di quell’episodio sono state enormi e Henry è stato il primo ad ammettere di aver rimpianto la sua decisione. Ha ammesso che era ingiusto nei confronti dell’Irlanda e che la ripetizione della partita di playoff sarebbe stata l’unica soluzione giusta. Purtroppo, la FIFA ha rifiutato la richiesta dell’Irlanda di rigiocare la partita e Henry vive ancora con una macchia sulla sua carriera.
La Francia fu poi eliminata al primo turno e i calciatori si ribellarono contro un disastroso Raymond Domenech. In parte disonorato e in parte umiliato, Henry si è ritirato dalla scena internazionale come il secondo giocatore con più presenza nella storia della Francia dietro a Lilian Thuram.
Henry è criticato da molti per non essersi espresso in nazionale come con la maglia dell’Arsenal, ma queste affermazioni sono errate. Importantissimo nel successo nella Coppa del Mondo nel 1998, e ancor più durante la marcia verso la gloria di Euro 2000, Henry è stato inoltre un membro fondamentale della squadra che nel 2006 è arrivata alla finale dei Mondiali.
Il marchio di quella giocata antisportiva contro l’Irlanda è indelebile, ma il francese ha vinto tutto in nazionale. Un’impresa che spesso è considerata il punto di riferimento per decidere chi sono i più grandi calciatori di tutti i tempi. Di certo è tra i più forti calciatori che hanno mai giocato in Inghilterra. La sua classe e il suo genio saranno eterni.
Pochi calciatori danno l’idea di poter decidere una partita da soli e di quando segnare, ben pochi nella storia sono riusciti a partire da centrocampo, scartare mezza difesa e segnare. Nel suo apogeo, Henry è entrato in questa ristretta cerchia, entrando di diritto nel Pantheon del calcio.
Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione