Bruxelles, 29 maggio 1985. La Juventus, alla caccia della prima Coppa Campioni della sua storia, si appresta ad affrontare il Liverpool, la squadra più vincente degli ultimi anni. Il teatro della contesa è lo stadio Heysel di Bruxelles. L’impianto è vetusto e mal organizzato. Travi, calcinacci e persino pietre sono a portata di mano di qualsiasi facinoroso fuori dallo stadio. Inoltre, vendita di biglietti e assegnazione dei settori sono gestite nel peggior modo possibile.
Se fuori dallo stadio procede tutto tranquillo, vista l’ottima organizzazione da parte della polizia, all’interno dell’Heysel procede tutto nel peggiore dei modi e la tragedia si materializza.
Abbiamo raccolto alcune testimonianze di tifosi della Juventus, che erano allo stadio Heysel di Bruxelles quel maledetto 29 maggio 1985.
Matteo Luci di Mugello
“Avevo 17 anni. L’eccitazione per la finale di Coppa Campioni era immensa. Mi ritrovai da solo su questo pullman, ma durante il lungo viaggio feci conoscenza di tanti ragazzi. Fra questi un ragazzo di Pistoia (ritrovato su facebook da poco tempo), che sarà determinante nel salvarmi la vita all’interno dello stadio”.
“Tutti eravamo a conoscenza delle “turbolenze” dei tifosi del Liverpool. I famigerati “Hooligans” che già in passato si erano resi autori di atti vandalici e teppistici. Ma non credevo che sarebbero potuti arrivare a tanto. Già quando arrivammo in città la situazione sembrava ormai in mano ai tifosi inglesi, che picchiavano gente alle fermate degli autobus, spaccavano vetrine e soprattutto riuscivano a far entrare dentro lo stadio, spranghe bastoni e casse di birra a quantità industriale“.
“Già dall’esterno lo stadio appariva logoro e fatiscente. Ma dentro era peggio. C’erano pezzi di legno ovunque. Le gradinate erano formate da “Sanpietrini” già spaccati o che potevi spaccare un con un semplice pestone. Per non parlare delle reti di recinzione, autentiche reti da pollaio. Insomma il luogo ideale per una carneficina. Entrammo dentro lo stadio due ore prima del match. Eravamo nella curva opposta a quella della Juventus“.
“La particolarità di questa curva era che per metà era occupata dagli inglesi e l’altra metà doveva essere destinata ad un pubblico neutrale. E invece le agenzie di viaggio avevano venduto i biglietti anche i tifosi della Juventus. Nel mezzo la famosa rete da pollaio e 4 poliziotti che ben presto si dileguarono. Io volevo stare lontano dai tifosi del Liverpool e invece questo ragazzo di Pistoia mi disse: “Matteo non ti preoccupare sono esperto di Arti Marziali non aver paura. Ti difendo io”. “Fu la mia salvezza, Perché se fossi andato verso il famoso muretto, che poi crollò, molto probabilmente sarei morto anche io. Verso le 19 gli inglesi ormai in preda dell’alcol iniziano prima a lanciare oggetti verso di noi e infine iniziano a caricare, spazzando via la rete di divisione. Fu l’inizio della fine”.
Tecla Olivieri di Finale Ligure
“Fuori e dentro lo stadio era una guerra, volavano pietre ovunque: da quel giorno non ho mai più tifato nessuna squadra di calcio”. Sono queste le prime parole che di Tecla Olivieri, che il 29 maggio 1985, insieme all’ex marito Domenico Coppa si trovava allo stadio Heysel di Bruxelles.
“In pochi secondi”, racconta con Tecla, “fu guerra. Io mi trovavo nella parte alta del settore e quella la nostra fortuna. Intorno a noi cominciò a scatenarsi una battaglia, c’erano pietre e mattoni che volavano ovunque, gente che scappava. Io mi muovevo spinta dalla folla, non toccavo neanche i piedi per terra”.
“Fortunatamente, prosegue la donna, davanti a noi c’erano quattro bambini. Una guardia venne a prenderli per metterli in salvo, noi li seguimmo e riuscimmo a uscire dallo stadio. Dopo di noi chiusero le porte e per parecchie ore non sapemmo la sorte dei nostri amici”.
“Siamo corsi verso il bus ma non ci hanno fatto salire: non sapevamo cosa fare. Abbiamo iniziato, sempre tenendoci per mano per paura di perderci, a allontanarci dalla zona, alla disperata ricerca di un mezzo pubblico”. “Ci siamo messi in mezzo alla strada a sbracciare, ma nessuno ci ha caricato. Dopo un po’ di tempo che vagavamo abbiamo visto un taxi fermo”.
“Dopo quella dei bambini, questa è stata la seconda fortuna della giornata. L’autista infatti era marocchino, ma parlava perfettamente italiano perché aveva lavorato per moltissimo tempo a Savona. Ci ha spiegato che la corsa era stata prenotata da una signora e che la stava appunto aspettando”.
“Quella signora, dopo essersi voltata e averci guardato dal lunotto ha deciso di farci salire. L’autista ci ha fatto togliere le sciarpe e, dopo aver accompagnato lei in stazione, ci ha portato in aeroporto”. A quel punto poi la signora Olivieri e il marito riuscirono a telefonare alla famiglia in Italia: “Ho parlato con mia madre, prosegue la signora, per qualche secondo, giusto il tempo di rassicurarla e poi è caduta la linea”.
E in aeroporto: “Dopo due ore cominciano a arrivare i nostri amici, chi con la camicia strappata, chi senza scarpe, chi ferito. Qualcuno è partito con noi subito per rientrare in Italia, qualcun altro era tra i feriti dello stadio. Non potrò mai dimenticare quel giorno”.

Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione