Quando si cerca di associare le parole “El Salvador” e “calcio” è inevitabile pensare a uno dei momenti peggiori della storia della nazione salvadoregna. Grazie allo scrittore Ryszard Kapuscinski, abbiamo potuto conoscere in prima persona la terribile storia di quel classico con l’Honduras che si concluse con una breve ma fatale guerra nel 1969 (il match è considerato come un catalizzatore, non il “grilletto” premuto per far partire il colpo, cosa che lo scrittore polacco ha spiegato molto bene). L’8 giugno 1969 la capitale dell’Honduras, Tegucigalpa, era teatro della sentitissima sfida tra i padroni di casa ed El Salvador.
L’accoglienza fu terribile per gli ospiti, con i tifosi locali che tennero svegli i calciatori di El Salvador, facendo baccano e lanciando sassi contro l’albergo. Ricordate ciò che provarono a fare i tifosi del Barcellona per disturbare il sonno dei calciatori dell’Inter alla vigilia della semifinale d’andata della Champions 2010? Moltiplicatelo per 100. L’Honduras avrebbe vinto quella partita per 1-0 grazie a un gol di Roberto Cardona allo scadere.
Pochi giorni dopo, una ragazza salvadoregna, Amelia Bolanos, prese la pistola del padre e si sparò morendo sul colpo. Questo suicidio generò una sorta di rivolta nazionale al punto tale che i media locali affermavano che Amelia si era suicidata «per non aver retto al dolore di vedere la patria messa in ginocchio». I calciatori della nazionale di El Salvador, “rei” di aver causato tutto ciò, furono subissati di fischi e improperi ai funerali di Amelia Bolanos.
Qualche giorno dopo, fu il turno di El Salvador a ospitare l’Honduras, questa volta a casa sua. Cosa successe? I calciatori della nazionale honduregna furono scortati dai carri armati per recarsi allo stadio. Prima del match, i tifosi salvadoregni si erano vendicati nei confronti dei calciatori honduregni, riservando loro lo stesso trattamento riservato alla nazionale di El Salvador nell’albergo di Tegucigalpa. In occasione del match l’inno nazionale honduregno fu fischiato e la bandiera bruciata. Il clima era infuocato e gli ospiti affrontarono il match in condizioni proibitive. A vincere fu El Salvador per 3-0. Più che battere l’avversario, l’obiettivo era salvare la propria incolumità. A fine match, il CT dell’Honduras affermò sollevato: «Fortuna che abbiamo perso».
Quella partita innescò una serie di rivolte che culminarono in morti, feriti e danni ingenti nella capitale salvadoregna. Ryszard Kapuscinski ricorda: «il confine tra football e politica è molto sottile e lunga è la lista dei governi caduti o rovesciati dall’esercito per una sconfitta della nazionale». El Salvador bombardò quindi l’Honduras, facendo scoppiare una guerra che sarebbe durata 100 ore, con bel 6000 morti.
Tutto questo dramma per una semplice partita di calcio? «Il calcio – ricordò Kapuscinski – contribuì a rinfocolare lo sciovinismo e l’isteria patriottica, tanto necessari per scatenare la guerra e rafforzare il potere dell’oligarchia in entrambi i Paesi». E aggiunse: «I due governi sono rimasti soddisfatti dalla guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l’interesse dell’opinione pubblica internazionale. I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste ma vero».
L’avvento del Mágico González
Eppure il calcio salvadoregno non è legato esclusivamente a quella partita. El Salvador è conosciuto a livello calcistico anche per una persona che è diventata una bandiera, un modo di vedere e sentire il calcio. Jorge Alberto González Barillas non era solo un giocatore: era la gioia di giocare, di vivere. Era, in altre parole, magia nella sua forma più pura. Il soprannome gli fu assegnato dal commentatore sportivo Rosalío Hernández Colorado dopo una partita tra ANTEL e Club Deportivo Águil.
Guardarlo in azione è tornare ai tempi passati, dove tutto era molto più semplice: i campi di gioco non erano prati lisci dove la palla correva libera, gli spettatori guardavano le partite sempre in piedi (i posti a sedere erano sconosciuti a certe latitudini), la televisione trasmetteva pochissime partite e i difensori erano spesso autentici macellai, uomini duri con baffi imponenti pronti a spaccare tutto ciò che si muoveva. Per questo i calciatori dovevano avere un talento senza pari; non solo per rendere il calcio uno spettacolo, ma semplicemente per sopravvivere. E in questo, Mágico González si è distinto come pochi altri nella storia.
Nato il 13 marzo 1958, Mágico González è emerso dal calcio centroamericano, grazie alle sue abilità con il pallone. Ha ingannato tutti con la sua figura sgraziata, che dava anche l’idea di fragilità. Ma quella era una semplice apparenza: una volta caduti sotto l’incantesimo del mago era impossibile stargli dietro. Sembrava sempre essere un passo avanti a tutti, guardando tutto ciò che lo circondava e aspettando il momento giusto per attaccare. E quando aveva davanti a sé il suo avversario, bastava un semplice movimento dell’anca per distruggerlo tatticamente, tecnicamente e mentalmente.
Ben pochi calciatori riuscivano a fermare il Mágico senza commettere fallo. Il salvadoregno era agile come una gazzella e veloce come un puma, quindi dargli dei metri significava non solo essere umiliato da lui, ma capire che presto sarebbe arrivato in porta, sicuramente dribblando il portiere o segnando con un tiro fulmineo. E tutto questo in un pochi istanti.
Ha mosso i primi passi in patria negli anni Settanta. Erano tempi in cui le parole “Internet” o “globalizzazione” sembravano prese dalla fantascienza ed era molto difficile scovare calciatori di campionati sconosciuti come quelli centroamericani. Sicuramente oggi, con le meraviglie dei social network, il Mágico González sarebbe approdato in una big europea.
Ecco spiegato il motivo per cui il miglior calciatore salvadoregno di sempre ha giocato vari anni in patria (ANTEL, Independiente e FAS) fino al suo arrivo in Spagna nel 1982, militando per la squadra che sarebbe diventata il suo grande amore, il Cadice. Ma naturalmente, per arrivare a giocare nel campionato spagnolo doveva prima farsi conoscere, e quale modo migliore per farlo che in un Mondiale.
La Selecta è diventata la prima squadra centroamericana a qualificarsi a più di una Coppa del Mondo dopo aver concluso al secondo posto il campionato CONCACAF (il precursore dell’attuale Gold Cup), lasciando dietro il Messico. Quelli erano tempi più semplici. Le squadre nazionali avevano una squadra in cui praticamente tutte giocavano all’interno del proprio territorio (l’unica eccezione in El Salvador sarebbe stata Jaime Rodriguez, che giocava per il Bayer Uerdingen, squadra dell’allora Germania Ovest).
I centroamericani non erano nel gruppo migliore nel Mondiale di Spagna ’82. La loro prima apparizione era stata a Messico ’70, 12 anni prima. I loro rivali erano i campioni dell’Argentina – guidati da Diego Maradona – il Belgio e l’Ungheria, avversario al loro esordio in quel di Elche. Nonostante l’accesso al mondiale, i calciatori della nazionale non potevano estraniarsi dalla realtà del propria Paese: la guerra civile aveva colpito tutti gli strati sociali e la pace sembrava non arrivare mai.
Il portiere della Selecta, Luis Guevara Mora, nel libro I Mondiali di calcio degli sconfitti di Matteo Bruschetta ha dichiarato: «È stato difficile crescere in questa situazione. Camminando per strada, era comune vedere un cadavere sul marciapiede o trovarsi nel bel mezzo di una sparatoria (…) Bastava essere nel posto sbagliato al momento sbagliato».
El Salvador si era preparato giocando diverse amichevoli (contro il Boca, il PSG o il Botafogo, per esempio), approfittando del fatto che praticamente tutta la squadra si stava allenando nel Paese. Sono state quelle partite che hanno portato visibilità al Mágico González, consentendogli di trasferirsi nel Vecchio Continente. Il suo talento ha gradualmente superato le frontiere.
Quello che non trascendeva, però, era il trattamento della Federazione, che faceva pressione sui propri calciatori per ottenere risultati, ma dava ben poco in cambio. I bonus non arrivavano mai, le condizioni di allenamento non erano delle migliori (per usare un eufemismo), non c’era abbastanza materiale (i calciatori dovevano rubare le maglie che indossavano, per poter avere un “souvenir” dei Mondiali). L’albergo dove alloggiava la nazionale di El Salvador si trovava vicino a un poligono di tiro: non le condizioni ideali per un sonno tranquillo.
La Selecta non era una cattiva nazionale, ma queste condizioni proibitive non la aiutarono. I magiari inflissero a El Salvador un sonoro 10-1. La prova del nove sarebbe arrivata contro Belgio e Argentina, contro le quali la nazionale salvò la faccia, perdendo rispettivamente solo 1-0 e 2-0.
Tuttavia, il Mágico González riuscì a dare un saggio delle sue qualità, cosa che gli avrebbe permesso di iniziare una nuova avventura.
«Nel mio Paese, noi calciatori usciamo dalle terre desolate, dai campi da gioco, e all’improvviso si arriva in Europa… È come andare all’università senza andare a scuola».
L’Atletico Madrid trattò con il calciatore, ma il Cadice fu più veloce. Con la maglia della squadra andalusa il Mágico González mostrò il meglio del suo repertorio: punizioni precisissime, dribbling mozzafiato, abilità stratosferica per il dribbling e una passione per il calcio che non aveva eguali. Talmente bravo che persino Maradona arrivò a tesserne le lodi: «Il Mágico è più forte di me, perché io vengo dal pianeta Terra, mentre lui viene da un’altra galassia. Tecnicamente, è il calciatore più forte che io abbia mai visto». I due ebbero la fortuna di giocare insieme quando il salvadoregno si unì al Barcellona per una tournée negli USA, dove incantò il pubblico e non solo.
Quando scattò l’allarme antincendio nell’albergo dove alloggiavano i Blaugrana, il salvadoregno non si recò al punto di raccolta. Dopo un po’ di tempo, il tecnico Terry Venables lo scovò in camera, a letto con due ragazze bionde. “Beh, che c’è? Non avevo ancora finito, qui…”. Dopo la fine della tournée con il Barcellona, González fu rispedito al Cadice. «Riconosco che non sono un santo: mi piace la notte e la voglia di far baldoria non me la toglie neanche mia madre. So che sono un irresponsabile e un cattivo professionista. Ma ho una pazzia in testa: non mi piace approcciarmi al calcio come ad un lavoro. Se lo facessi non sarei me stesso. Gioco solamente per divertirmi»
L’unica cosa che poteva fermare il salvadoregno dall’essere ancora più grande era, appunto, il suo amore per la notte, per le feste. A El Gráfico dichiarò, a proposito di quegli anni, che “non per una partita, ma per gli allenamenti mi sono presentato senza essere andato a letto”. González finì per essere un genio incompreso all’interno di un calcio sempre più professionale. In patria poteva concedersi certe libertà, ma in Spagna migliaia di occhi si posavano su di lui per sapere tutto quello che faceva. Era impossibile sfuggire ai pettegolezzi, anche se si esibiva in modo sensazionale in partita.
El Mágico ha avuto anche una breve esperienza con il Valladolid, ma il suo cuore batterà sempre per il Cadice, squadra con cui ha giocato fino al 1991, quando è tornato al FAS. Tuttavia, nonostante abbia appeso le scarpe al chiodo nel 1999, non ha mai abbandonato la passione per il calcio, giocando partite anche a 60 anni con i suoi amici o addirittura con i suoi ex compagni di nazionale. «La mia ossessione è sempre stata quella di divertirmi. Volevo essere felice senza fare del male a nessuno», ha detto anni dopo il suo ritiro dal calcio giocato. Alla fine, questo è ciò che è il calcio: il divertimento. E pochi l’hanno fatto meglio del Mágico González, il mago di El Salvador.
Vincenzo Di Maso
Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione