Dejan Savicevic è stato un campione che ha attraversato la fase di transizione da un calcio creativo al trionfo del manifesto tattico e fisico.
Titograd si trovava in quella terra di mezzo tra il calcio europeo e la “cortina di ferro” sovietica, quella da cui emergevano dal nulla grandi talenti locali. Non c’erano certi ostacoli per quanto riguarda il calcio balcanico, ma negli anni ’70 e ’80 non erano tantissimi i campioni balcanici a venire a giocare in Europa Occidentale.
Negli anni ’90 le cose erano cambiate. La Stella Rossa era l’emblema della brillantezza del calcio balcanico. E Savicevic era uno dei perni della Stella Rossa nel periodo in cui la Jugoslavia cadeva a pezzi e si ritrovava nel caos a causa della pulizia etnica e delle tensioni religiose che risalgono a secoli addietro.
La squadra jugoslava esprimeva un simile di gioco che poteva essere considerato l’antesignano del gegenpressing. Era una squadra rapidissima e micidiale nelle transizioni in contropiede e dotata di una grande armonia nel pressing. Non era pertanto una squadra difensiva, bensì una compagine con baricentro alto ed estremamente aggressiva. Tra le compagni del passato, quella Stella Rossa è senza dubbio la squadra più vicina al Liverpool di Klopp.
Un giocatore indimenticabile della grande squadra della Stella Rossa è stato Robert Prosinečki, il maestro del centrocampo della squadra e calciatore che spesso sembrava essere di un altro livello rispetto agli altri 21 giocatori in campo. Dotato di tecnica raffinata ed estro, Prosinečki era in faro della squadra assieme a Dejan Savicevic, i due rifinitori principali per l’attaccante Darko Pančev. Il montenegrino Dejan Savicevic giocava alle spalle del macedone Pančev. Entrambi sostengono che l’altro è stato il miglior partner offensivo con cui abbia mai giocato.
Savicevic è ricordato soprattutto per il suo periodo con il Milan, dove è diventato uno dei migliori calciatori della Serie A. Alla Stella Rossa il suo ritmo e la sua creatività funzionavano a meraviglia con Pančev, soprannominato Kobra per la sua letale abilità di finalizzazione. Nel 1991 quest’ultimo ha vinto la Scarpa d’Oro Europea e nello stesso anno è arrivato secondo al Pallone d’Oro.
Nella campagna trionfale del 1990/1991, ad Stella Rossa in semifinale c’era il temibile Bayern Monaco. Quella doppia sfida ha definito l’essenza di quella squadra. La squadra jugoslava eseguì un piano di gioco perfetto all’Olympiastadion di Monaco. Il contropressing e le combinazioni micidiali tra Savicevic e Pančev strabiliarono gli spettatori tedeschi e la Stella Rossa vinse per 2-1, rimontando lo svantaggio iniziale. Prosinečki giocò una partita magistrale, raggiungendo il culmine con lo splendido lungolinea filtrante per Binić, che crossò per Pančev.
In finale, come noto, la Stella Rossa sconfisse ai rigori il Marsiglia dell’ex Stojkovic. Proprio quello Stojkovic di cui Savicevic è stato erede. I due erano molto diversi. Vero che giocavano nella stessa posizione ed erano i calciatori più tecnici della squadra. Mentre Pixi era un trequartista moderno, che sfruttava molto le sue abilità di passaggio, il Genio di Titograd veniva a prendersi il pallone a centrocampo, saltando poi gli avversari con leggiadria.
L’arte dribblatoria di Dejan Savicevic era pura poesia. Il montenegrino è stato uno di quei fuoriclasse per cui valeva davvero la pena sborsare il prezzo del biglietto. A riguardo, Alessandro Costacurta ha dichiarato: “c’erano solo due persone al mondo per cui valeva la pena pagare il prezzo del biglietto: Marco Van Basten e il Genio”. Ondeggiava, oscillava, fintava, sbilanciando l’avversario che rimaneva inebetito.
I suoi dribbling erano l’opposto di quelli dei calciatori di scuola sudamericana. Savicevic superava l’avversario senza doppi passi o veroniche, ma con tanti tocchetti con le varie parti di entrambi i piedi. Muoveva il pallone sia con il sinistro sia con il destro, che era il piede debole. Era un calciatore che andava a nozze negli spazzi stretti e contro le difese chiuse. Non velocissimo nel lungo, il montenegrino era dotato di una rapidità fuori dall’ordinario nello stretto.
Il suo stile di gioco è riuscito a sopravvivere alla trasposizione nel calcio italiano. Fabio Capello era la quintessenza del tecnico pragmatico e quadrato. L’allenatore friulano giocava con il 4-4-2, pertanto l’unica collocazione possibile per il montenegrino era come esterno di fascia. Era un 4-4-2 meno elaborato rispetto ai moduli attuali che prevedono le ali. Savicevic era solito giocare a destra per poi accentrarsi.
In campo era in grado di leggere la partita, così come i movimenti dei compagni e degli avversari, sfruttando i punti deboli e gli errori di questi ultimi. Con il pallone tra i piedi, la sua razionalità lasciava invece spazio a una geniale improvvisazione. Molti dei suoi dribbling erano di istinto puro, favoriti dalle sue qualità da giocoliere nel riuscire a spostarsi la sfera con semplici tocchetti.
Il capolavoro contro il Barcellona merita invece un discorso a parte.
La rete è un capolavoro di caravaggiesca memoria. Albertini buttò in avanti il pallone con una mossa di alleggerimento. Fino a quel momento il montenegrino era stato pericolosissimo, ma palla al piede. In uno dei pochi sprint di quella finale, scommise sull’errore dell’avversario, che puntualmente avvenne.
La superficialità di Nadal lo aiutò, ma il difficile doveva ancora venire. La posizione era defilata, mentre Zubizarreta era fuori dai pali, ma non troppo. L’arco disegnato con quel perfetto pallonetto sembra l’esecuzione di uno dei celebri progetti dell’architetto spagnolo Santiago Calatrava. Quel gol distrusse la squadra plasmata con cura ma altrettanta arroganza del filosofo della panchina Johan Cruyff.
Quella finale rappresentò l’apice della carriera calcistica di Dejan Savicevic. Al di là del gol, il Genio del Milan si rese protagonista di una delle migliori partite disputate da un singolo calciatore nella storia di una finale. Capello lo liberò da consegne tattiche troppo esigenti e il montenegrino fu libero di svariare, partendo dalla posizione di seconda punta, prediligendo il lato destro dell’attacco.
L’anno successivo, il Milan e Savicevic avrebbero potuto replicare il trionfo, ma contro l’Ajax fu determinante l’assenza del montenegrino. «Con lui sarebbe stata un’altra cosa», affermò candidamente Silvio Berlusconi. Il calciatore fu in dubbio fino all’ultimo. Gli esami strumentali con macchinari all’avanguardia avevano escluso lesioni, ma il dolore era troppo forte. “Macchina non sente dolore, Dejan si”.
Eppure nel 1993, Dejan Savicevic avrebbe potuto lasciare il Milan. Fabio Capello ha ricordato gli scontri tra i due: «L’unica discussione più accesa che ho avuto con Berlusconi è stata su Savicevic. Lui voleva che giocasse, io gli dicevo che lo lasciavo in campo finché correva. Abbiamo avuto anche dei contrasti con Savicevic, poi siamo diventati grandi amici, è stato uno dei giocatori in assoluto migliori che io abbia mai allenato».
Mesi prima di quella fantastica finale, a dicembre 1993, il calciatore dichiarò che non avrebbe mai più giocato nel Milan. Dopo la panchina (rifiutata dal giocatore) nella finale di Coppa Intercontinentale contro il San Paolo, Savicevic andò su tutte le furie. Capello era spalleggiato dai leader dello spogliatoio, furiosi per lo scarso spirito di sacrificio da parte dell’ex Stella Rossa. Il Milan deve ringraziare Adriano Galliani, che con un suo commovente tentativo, andato a buon fine, fece tornare il montenegrino sui propri passi.
Senza quella mediazione dell’AD rossonero, quel Milan post-Sacchi non sarebbe entrato nella storia. Dopo un lungo periodo di adattamento e difficoltà, il montenegrino riuscì a coniugare il meglio di due mondi calcistici estremamente diversi, ma entrambi vincenti in quegli anni. Le sue giocate non potranno mai evaporare come polvere di stelle, ma resteranno nella storia di questo sport.
Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione