FRATELLI D’ITALIA

È il giorno del giudizio: l’Italia va nella patria del calcio, l’Inghilterra, a contendersi una finale del Campionato Europeo nel tempio del calcio, Wembley. L’impressione è di star dentro a qualcosa di storico già da questa mattina; un giorno diverso dagli altri che nel bene o nel male verrà ricordato per molto tempo nella storia del nostro calcio.
L’Inghilterra fa paura, ma l’Inghilterra ha paura di noi.
Fa paura per il contesto, per quello stadio ribollente di entusiasmo che può rendere novanta minuti un tempo infinito. Fa paura per la squadra che è, con quell’ariete davanti che porta il nome di Kane e che verrà consegnato alle cure di Chiellini, per la freschezza dei suoi giovani, per l’impeto del suo gioco, per la velocità nelle ripartenze con quelle due saette di nome Sterling e Saka, per la legge dei grandi numeri che li vuole lontani da un trofeo (l’unico) da quando la Regina Elisabetta era molto giovane e i Beatles sulla cresta dell’onda.
L’Inghilterra tuttavia ha anche tanta, ma tanta, paura di noi. Perché noi, mentre loro aspettavano cinquantacinque anni dal 1966 a oggi, nel frattempo in finale ci siamo andati nel 1970, nel 1982, nel 1994, nel 2000, nel 2006, nel 2012 e con quella di oggi, anno domini 2021, sono sette volte, senza contare i titoli precedenti del 1934, del 1936 alle Olimpiadi e del 1938. Vorrà dire qualcosa?
Ha paura perché noi siamo andati spesso nella tana del lupo a guastare la festa a chi pensava di aver già vinto: bisogna ricordare a qualcuno quanti tedeschi piansero a Dortmund nel 2006? O quanti francesi tremarono fino ai rigori, con Baggio a sfiorare di cinque centimetri il golden gol in uno stadio Stade de France ammutolito, nei quarti di finale del Mondiale di Francia 1998? O vogliamo parlare degli Europei in Olanda quando facemmo crollare un muro Oranje grazie al nostro di muro, Francesco Toldo?
Potete scommetterci, fischieranno il nostro inno: lo hanno fatto con tedeschi e danesi, non c’è motivo per cui non debba accadere in finale contro di noi.
Lo faranno a maggior ragione perché se il loro “God save the queen” è meraviglioso, il nostro inno durante questa competizione è diventato iconico, è diventato l’haka europea: il modo di cantarlo dei nostri Azzurri, quasi in trance, con quel ritmo che esalta l’anima ribelle del suo giovane autore, è uno spettacolo che fomenta i suoi interpreti, pronti alla morte perché l’Italia chiamò.
Sarebbe bello, come nel rugby, poterglielo cantare guardandoli negli occhi, faccia a faccia per vedere le loro facce e capire se tengono alta la testa o abbassano lo sguardo. Una finale a Wembley affrontando i padroni di casa, per noi, sarà un’altra tappa dell’incredibile storia della nostra Nazionale.
Kant diceva che alla nascita si eredita il “carattere della nazione”, una serie di sovrastrutture che inconsciamente ti fanno ereditare delle peculiarità proprie del paese in cui sei venuto al mondo. Questo concetto esiste anche nel calcio, c’è un carattere della Nazionale che si tramanda inconsciamente e che trascende gli interpreti che andranno in campo, un’impronta, un marchio di fabbrica che non cambia mai.
Per questo ai giocatori inglesi, che fieri e spavaldi si affiancheranno ai nostri nel tunnel di ingresso, a un certo punto cadrà lo sguardo sopra al tricolore cucito sulle maglie dell’Italia e noteranno che poco sopra ci sono quattro stelle, simbolo di quattro mondiali vinti e di mille imprese. In quel momento faranno bene a capire che, forse, quell’ “It’s coming home” che sbandierano ai quattro venti con sicurezza e spavalderia sarà tutto da guadagnare, centimetro dopo centimetro per novanta minuti più eventuali supplementari.
Del resto “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.” lo disse un certo Winston Churchill.

Il calcio è la mia passione in ogni sua sfaccettatura: ho giocato tanto, ho allenato altrettanto e adesso mi piace raccontarlo.