In occasione del ventunesimo congresso della FIFA, tenutosi nell’ottobre 1932, l’Assemblea assunse la decisione di assegnare alla FIGC l’organizzazione della seconda edizione della Coppa del Mondo di calcio.
La Svezia aveva ritirato la propria candidatura, pertanto l’Italia ebbe campo libero. A capo della FIGC c’era Leandro Arpinati, gerarca di regime e podestà di Bologna. Arpinati cadde in disgrazia nel 1933 a causa di un litigio con Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista e braccio destro di Benito Mussolini. Al suo posto, salì un militare, il generale Giorgio Vaccaro, massimo dirigente del CONI.
Calcio e fascismo: gli inizi
In pochi hanno compreso il potere del calcio più di Benito Mussolini, il leader fascista dell’Italia tra il 1922 e il 1943. Nel dopoguerra la nostra nazione era un luogo che pullulava di incertezze. L’economia, relativamente lenta a industrializzarsi, fu duramente colpita dal conflitto durato quattro anni, e la transizione verso una nazione unificata dalla precedente esistenza del Paese come un mosaico di città-stato indipendenti era ancora incompleta.
Come scrive Felice Fabrizio nel suo libro “Sport e Fascismo. La politica sportiva del regime 1924–1936″ l’Italia fu la prima nazione, insieme all’Unione Sovietica, a porre in essere una politica sportiva che portasse il Paese a diventare una Nazione sportiva. Decenni prima di Salazar, per intenderci.
Le grandi ambizioni di Mussolini di fare dell’Italia una grande potenza, ripristinando la grandezza associata all’antica Roma e creando un impero che mostrasse forza sulla scena mondiale, si basavano quindi sulla realizzazione dell’unità interna. Il dittatore si rese presto conto che il calcio era il veicolo ideale per guadagnare il sostegno popolare per il suo movimento nazionalista.

Quando Mussolini assunse il controllo del Paese rovesciando il re Vittorio Emanuele III all’inizio degli anni Venti, il calcio era uno sport che stava crescendo in popolarità. L’organizzazione del gioco era però estremamente rudimentale: esistevano due leghe separate – una riservata agli italiani e una che consentiva anche la partecipazione di stranieri – e ciascuna era divisa in gruppi regionali.
Consapevole delle potenzialità del calcio, il Duce promulgò una serie di riforme che tentarono di coordinare l’amministrazione, fino ad allora disarticolata, e di cementare lo status del calcio come indiscussa attività primaria del tempo libero della nazione.
La preoccupazione principale di Mussolini era però la nazionale, e queste riforme interne furono poste in essere in gran parte con l’obiettivo primario di perseguire questo fine. Con una struttura che favorisse lo sviluppo dei giocatori italiani, il Duce sperava che gli Azzurri fossero sufficientemente attrezzati per sfidare per competere per il titolo ai Giochi Olimpici e per la vittoria della Coppa del Mondo, consapevole che qualsiasi successo sulla scena mondiale avrebbe portato alla costruzione di un’immagine dell’Italia come Paese forte, importante e potente.
Il trionfo sulla scena internazionale avrebbe portato benefici interni: se gli italiani si fossero uniti dietro la loro bandiera tricolore in nome del calcio, probabilmente lo avrebbero fatto anche in altri contesti. Mussolini sapeva che i successi sportivi avrebbero probabilmente suscitato un nuovo spirito patriottico, generando una più generale mentalità collettivista e nazionalista tra i cittadini del Paese.

Mussolini e i Mondiali
In maniera simile alla recente candidatura del Qatar per i Mondiali del 1934, la richiesta dell’Italia di ospitare i Mondiali di calcio del 1934 fu guidata in gran parte dalla politica. Mussolini fu sedotto dal senso di orgoglio e di prestigio che l’organizzazione della seconda edizione della competizione avrebbe portato, con il governo fascista italiano desideroso di utilizzare il potere del calcio per l’ulteriore rafforzamento del proprio regime.
Come afferma John Foot nella sua opera Calcio, ad esempio, i nuovi stadi del Paese hanno dimostrato la “potenza industriale dell’Italia fascista” e sono stati la prova del rapido progresso economico avvenuto sotto il governo di Mussolini. Ancora una volta il calcio veniva identificato come lo strumento ideale per mostrare al mondo la crescente ricchezza e l’innovazione dell’Italia.
Come molti dittatori, Mussolini era molto attratto dalla microgestione, un’ossessione che non si adatta naturalmente allo sport, che invariabilmente e intrinsecamente contiene elementi di casualità. Infatti, se da un lato si possono elaborare piani di ampio respiro e manipolare le condizioni per offrire le maggiori possibilità di successo, dall’altro gli eventi sul campo rimangono imprevedibili, fatto che ha indotto un acuto senso di vulnerabilità in seno al Duce.
L’Italia era certamente una squadra di talento con calciatori di talento, come Giuseppe Meazza o gli oriundi Luis Monti e Raimundo Orsi, ma Mussolini voleva controllare il più possibile le variabili. È stato sostenuto, con ragionevole fondatezza, che Ivan Eklind, l’arbitro incaricato di dirigere la semifinale tra i padroni di casa l’Austria, fu invitato a una cena esclusiva da Mussolini alla vigilia della partita e, dopo che l’Italia vinse in maniera controversa, gli austriaci gridarono allo scandalo.
Anche nei quarti di finale con la Spagna c’erano state molte polemiche, quando il gioco aggressivo della nostra nazionale causò l’uscita di tre calciatori spagnoli per infortunio, mentre la vittoria per 2-1 contro la Cecoslovacchia in finale non fu certo il tipo di prestazione che mise a tacere gli scandali.

In un certo senso, Mussolini è rimasto indifferente alle critiche, come dimostrano la provocatoria esibizione nazionalistica dell’italianità della cerimonia di chiusura e l’istituzione della Coppa del Duce, un trofeo aggiuntivo assegnato ai giocatori italiani vittoriosi che era oltre sei volte più grande del premio che porta il nome di Jules Rimet. Tuttavia, col passare del tempo, Mussolini si sentiva frustrato dalla percezione che l’Italia fosse campione del mondo solo a causa della corruzione e delle tangenti.
Sebbene tale sentimento fosse stato parzialmente spazzato via dalla vittoria alle Olimpiadi di Berlino del 1936 – un trionfo che gli permise di mettere in secondo piano il suo alleato Adolf Hitler – Mussolini era consapevole che mantenere la Coppa nel 1938 era una questione della massima importanza. Ma questa è un’altra storia.
Una nazionale fascista
Vittorio Pozzo fu costretto ad affrontare i problemi del ricambio generazionale. Protagonisti della vecchia guardia come Baloncieri, Libonatti e Rossetti erano sul viale del tramonto. Nel 1931 la Juve si abbatté come un ciclone sul calcio italiano, vincendo cinque trofei e sfoggiando una squadra ricchissima di talento.
La difesa che Pozzo avrebbe utilizzato era assolutamente affidabile: oltre al trio Combi-Rosetta-Caligaris, esplosero giovani come il portiere Ceresoli, i terzini Monzeglio e Allemandi e i mediani Pizziolo e Bertolini.
Tra i calciatori della vecchia guardia rimase Attilio Ferraris IV, “er core de Roma”, che Pozzo convocò a sorpresa alla vigilia del Mondiale, facendogli vivere una seconda giovinezza, dopo l’allontanamento dalla file della Roma per questioni disciplinari.
La stella era Luisito Monti. Giunse in Italia portato da Renato Cesarini quando in Argentina era oramai considerato un calciatore al crepuscolo: il San Lorenzo de Almagro era desideroso di liberarsene e lo cedette subito. Presentatosi in Italia in netto sovrappeso, stupì tutti per la grande professionalità in allenamento e nello spogliatoio. L’oriundo fu un calciatore indispensabile per i successi della Juve: Pozzo se ne rese conto immediatamente, convocandolo in nazionale e facendolo giocare titolare.
Il centrocampo era guidato da Giovanni Ferrari, metronomo dotato di grande saggezza, mentre sulla trequarti giocava un certo Giuseppe Meazza, considerato all’unanimità uno dei migliori calciatori al mondo. In attacco i titolarissimi erano Orsi e Schiavio. Vittorio Pozzo diede poi spazio a Enrique Guaita, altro oriundo e calciatore offensivo totale.
Una parte fondamentale del successo della nazione fu proprio la presenza nella squadra degli oriundi, la parola italiana data agli immigrati di origine italiana. A prima vista, sembra forse antitetico che giocatori argentini come i succitati Monti, Orsi ed Enrique Guaita fossero così parte integrante di una squadra che mirava a promuovere il puro italianismo, ma la loro presenza in realtà si adattava perfettamente all’ideale fascista di un’Italia coloniale con mire espansionistiche, che naturalmente comprendeva una fiorente diaspora.
Si diceva tuttavia che i giocatori di origine straniera furono discriminati da Mussolini, i quali furono impiegati per necessità per assicurare la vittoria italiana e poi rinnegati. Ad esempio, nel 1934 le speciali medaglie commemorative furono date solo ai calciatori nati in Italia.

In campo la squadra esprimeva un gioco quanto più tipicamente fascista possibile. Pozzo era un allenatore autorevole che sottolineava l’importanza dello sforzo, del sacrificio e dell’unità, anche costringendo i giocatori a stare insieme se non andavano d’accordo.
In Inverting the Pyramid, uno dei best-seller sul calcio, che non dovrebbero mancare sugli scaffali degli appassionati, Jonathan Wilson scrive che, sebbene la politica di Pozzo non fosse chiara, “fece pieno uso del prevalente militarismo [fascista] per dominare la scena e motivare la propia squadra“. Brian Glanville, altro famosissimo scrittore di calcio, nel frattempo, faceva notare che l’Italia non aveva la tecnica di Austria o Ungheria, ma che compensava con la loro “maggiore forza e preparazione fisica”.
Giocatori di talento come Meazza, Silvio Piola e Gino Colaussi furono inseriti nelle formazioni ma venivano costretti ad abbandonare le loro naturali tendenze creative per il bene del collettivo. Il pragmatismo di Vittorio Pozzo era esemplificato dal fatto che il CT azzurro è stato uno dei precursosi della marcatura a uomo: un difensore italiano incollato a un attaccante avversario per tutta la partita dimostrava “disciplina e sacrificio”, due attributi molto apprezzati da Pozzo e, appunto, da Mussolini e dal suo governo fascista.
Difficile dire con certezza se l’Italia avrebbe avuto lo stesso successo sul campo se Mussolini non fosse salito al potere nel 1926. Dopotutto, il Duce non ha fatto certo sorgere da solo l’amore della nazione per il calcio, che era cresciuto molto prima del rovesciamento di Re Vittorio Emanuele III. Tuttavia, è palese un’impostazione più professionale del campionato ha certamente aiutato i calciatori a migliorare.
È altamente probabile che, con o senza Mussolini, sarebbero emersi coloro che avevano il talento sufficiente per diventare habitué della nazionale e sulla scena mondiale

Ciò che non si può negare, però, è l’importanza politica del calcio per Mussolini. Le vittorie del 1934, del 1936 e del 1938 hanno contribuito in qualche modo a unire il popolo italiano dietro un’unica causa nazionale, ed è stato astuto da parte di Mussolini riconoscere che il consenso pubblico era più raggiungibile attraverso il successo in questo sport.
Anche un dittatore fascista che controllava l’economia di una nazione, i servizi pubblici, la polizia e l’esercito, aveva bisogno del calcio per far progredire la sua causa personale e politica, un fenomeno affascinante che testimonia lo straordinario potere dell’arte pedatoria.
Vincenzo Di Maso

Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione