In ricordo della leggenda Marco Pantani
Esattamente 16 anni fa ci lasciava Marco Pantani, il più grande scalatore di tutti i tempi. Adriano De Zan: “Quando Pantani scatta, non c’è nulla da fare”
Il 14 febbraio 2004, esattamente 17 anni fa, ci lasciava Marco Pantani. Come ogni anno, non possiamo che provare un forte misto di tristezza e rabbia, per una giustizia che non c’è mai stata. Marco non ha avuto giustizia in vita e non la sta avendo dopo la morte. Preferiamo comunque non addentrarci in certe vicende, ricordando piuttosto il “Pirata” per le sue leggendarie gesta in bicicletta.
Pantani è stato un uomo che, grazie alle sue fantastiche imprese ed emozioni, è riuscito a tenere gli italiani incollati ai televisori, facendo seguire i grandi giri come ai tempi di Coppi e Bartali. Se negli anni del Campionissimo e di Ginettaccio, gli italiani in lotta erano due e l’Italia era divisa, a fine anni ’90 tutto il Paese era per Pantani.
Marco Pantani è stato un ragazzo semplice e umile, una persona quasi schiva e spesso di poche parole, che ha preferito far parlare la bicicletta. Quella bicicletta che sembrava volare su salite leggendarie come l’Aprica, l’Alpe di Pampeago, l’Alpe d’Huez o il Galibier.
E pensare che qualche anno prima dei grandi trionfi, un’auto lo investì, provocandogli un gravissimo infortunio alla gamba. Per molti ciclisti una simile sventura avrebbe rappresentato la fine della carriera a certi livelli, ma Pantani non era un comune mortale. Il Pirata si mise a lavorare strenuamente, tornando più forte di prima.
L’impresa del Galibier
La vittoria più leggendaria è quella del 27 luglio 1998 sul Galibier. Ricordiamo il suo scatto attraverso le parole di Adriano De Zan: «Ecco, parte Pantani. Attenzione, l’atteso scatto di Pantani, non risponde Ullrich, che aveva già dimostrato che quando scatta Pantani è meglio lasciar perdere». Mancava tantissimo al traguardo, ben 47 km, tra salite e discese, il tutto condito da una pioggia scrosciante.
E Pantani non aveva preparato al meglio quel Tour de France, in quanto il suo obiettivo era il Giro d’Italia, un giro che vinse brillantemente. Ma tra giro e tour se ne era andato Luciano Pezzi, colui che, dopo il grave incidente di Pantani, decise di costruire la Mercatone Uno sul “Pirata”, conferendogli i gradi di capitano e mettendogli a disposizione i migliori gregari. Prima della Grande Boucle Pantani fu animato proprio dal passaggio di Pezzi a miglior vita: «Ho perso un formidabile maestro, un uomo di quelli che non trovi tanto facilmente sulla via del ciclismo. Se ne è andato Luciano Pezzi che ha creduto in me, che ha scommesso su di me quando ero dentro un letto d’ospedale. Ho una gran voglia di prendere la maglia gialla e dire: “Vecchio amico, ecco, è per te che l’ho conquistata”. Vado al Tour per continuare a essere Pantani».
Prima del Galibier ci fu la cronometro, dove il favorito Ullrich diede ben 4’21 a Pantani. Il Pirata la prese con filosofia: «Sono contento perché mi sono tolto il pensiero della cronometro. Arrivo alle salite con i 5′ dell’anno scorso, ma con una cronometro in più, e c’è differenza. Un anno fa, erano solo cadute. Sperare sì ma non troppo, non aspettatevi chissà cosa sulle salite. Io so che sono venuto qui dopo aver vinto il Giro e altri al posto mio sarebbero stati a casa. Qualcosa farò, ma punto più sul Tour del ’99».
Nella prima tappa pirenaica Pantani riuscì a distaccare il Kaiser di Rostock sul Peyresourde, ma il recupero in termini di tempo fu di soli 23 secondi. Nella seconda tappa dei Pirenei, il plotone si fermò sul Portet-d’Aspet ad omaggiare Fabio Casartelli, campione Olimpico a Barcellona ’92, tragicamente deceduto su quella discesa. A Marco venne un magone, come a tanti altri ciclisti. E quella tappa fu quella in cui Ullrich si voltò cercando compagni e non sapendo che fare. Fu quel giorno che Pantani capì che davvero avrebbe potuto vincere La Grande Boucle: «Non è escluso che lotti per la maglia gialla. Avevo deciso di attaccare prima, ma Ullrich ha forato e ho aspettato che rientrasse. Non è sportivo attaccare uno che fora. Forse sono troppo spavaldo, ma voglio ricordare che io sono qui dopo aver vinto il Giro. Guardate la classifica e ditemi in quel periodo dov’erano gli altri».
E poi venne il giorno del Galibier. Pantani sferrò il suo attacco a quasi 5 km dalla cima del Galibier. Sembrano pochi, ma fino a una vetta così impervia sono tantissimi, fino a sembrare infiniti. Ullrich era lontanissimo, ma c’era la discesa. Pantani soffriva le discese e la pioggia. Il Pirata indossò una mantellina che gli fu consegnata dal direttore sportivo Orlando Maini, in discesa perse pochissimo e chiuse con un vantaggio di oltre 8 minuti sul rivale tedesco.
Questo il racconto su Rai Tre, con interviste a direttore sportivo e compagni:
Quando il Tour era in pugno, Marco rivolse ancora un pensiero a Luciano Pezzi: «Oggi è stata una fatica notevole, ma ci sono abituato. La sofferenza convive con me. Dopo il Giro ho continuato ad allenarmi, tutti mi dicevano di andare al Tour e io nel profondo mi chiedevo: “Cosa ci vado a fare?”. Poi è morto Pezzi, e mi sono sentito in obbligo nei confronti di Luciano. Sapevo che se fosse stato vivo mi avrebbe detto di andare».
Le parole nei confronti di Pantani
Gianni Mura era un grandissimo tifoso del Pirata e lo ha sempre raccontato con grande emozione: «Sapeva accendere la fantasia come pochi e durante il Tour del ’98 l’Italia si bloccò. Le vecchiette in estasi, la gente accalcata al bar come negli anni ’50. Se ancora, in quei sacrari verticali che sono le salite, la gente mette cartelli per ricordarlo significa che l’eco delle emozioni non si è spenta. Nei suoi confronti c’è una gratitudine che va oltre il rimpianto e la Pietas. È un riconoscimento costante, silenzioso, non appariscente».
E lo stesso Mura: «Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: «Perché vai così forte in salita?». E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: «Per abbreviare la mia agonia».
I Litfiba gli hanno dedicato un pezzo (Prendi in mano i tuoi anni) nel 1999, quando Pantani era all’apice della carriera. I Nomadi gli hanno dedicato invece L’ultima salita (2006).
Davide De Zan, figlio del celebre Adriano: «Sale la strada e lui si trasforma. Questo non vuol dire che non soffrisse, perché per arrivare a fare quelle cose lui tante volte mi diceva: “Davide, ci son dei momenti che mi sembra di morire…”.».
Pantani nell’immaginario collettivo
Quanto successo nel ’99, con la squalifica al giro per ematocrito alto (vergognosa), non scalfisce minimamente l’immagine di Pantani agli occhi degli appassionati di questo sport. Pantani è stato uno degli ultimi atleti che ci ha resi orgogliosi di essere italiani in ambito sportivo. Al cospetto di un tedesco (tifoso di Ullrich) potevamo alzare il petto e dire con orgoglio di essere connazionali di Pantani.
Pantani è morto, è stato ucciso, è stato umiliato negli ultimi anni di vita e dopo la morte, è stato ucciso due volte. Queste ingiustizie hanno fatto avvicinare ancora di più gli italiani, e non solo, alla figura di questo leggendario atleta, il più forte scalatore di tutti i tempi. Un uomo che in bicicletta sembrava un robot, che non lasciava trasparire emozioni, ma dentro di sé soffriva come gli altri, anche se riusciva a gestire meglio sforzo, fatica e sofferenza. Un ciclista nato per la salita.
Quando ci si diletta in bicicletta, volendo scalare una salita e passando per dei tornanti non può non riecheggiare la figura di Marco Pantani, colui che ha reso possibile imprese impossibili alla Grande Boucle, colui che dopo tante cadute si è rialzato, e che hanno dovuto fermare con altri mezzi (illeciti e sporchi) per non farcelo vedere più alzare le braccia al cielo in trionfo dopo aver scalato uno dei colli più leggendari al mondo.
Vincenzo Di Maso

Osservatore della realtà, amante dello storytelling, del calcio inglese e della tattica. DS di AC Rivoluzione