Ibra e quell’allenatore italiano che lo ha trasformato in un bomber
Agosto 2004: uno svedese “anomalo” atterra a Torino, ricevuto dalle alte cariche della Juventus in pompa magna, Moggi e Giraudo su tutti. Si fa chiamare Zlatan, è tronfio e pieno di sé, di quello (relativamente poco) che ha realizzato nei suoi primi anni di carriera tra Malmo e Ajax.
Ha voglia di misurarsi in una Juventus stellare che annovera tanti di quei campioni che, come affermerà lo stesso Ibrahimovic anni dopo, sono difficili da mettere insieme anche alla Playstation: ci sono Del Piero e Trezeguet suoi compagni di reparto e poi una cascata di fuoriclasse che passa da Nedved a Emerson, da Vieira a Camoranesi, da Thuram a Cannavaro ad un certo Buffon.
Anche l’ego di uno come Zlatan, nei primi giorni di allenamento, accusa il colpo: dire che si intimidisca è blasfemia, ma anche lui subisce il fascino della maglia a strisce bianconere e assimila quella mentalità vincente che ancora lo pervade all’alba delle quaranta primavere.
La sua sfida è misurarsi con le difese più forti al mondo, gareggiare in fatto di gol con i migliori bomber del mondo che in quel periodo sono tutti in Italia. C’è un problema però: Ibra non prende mai la porta, non sa calciare.
In Olanda il problema era relativo, li saltava tutti ed entrava in porta, ma Capello, tecnico di quella Juve, entra in scena e capisce presto che se vuole sviluppare le potenzialità di quella meravigliosa macchina targata Zlatan Ibrahimovic in Italia, c’è bisogno di un supplemento di allenamento sui tiri, evitando rigorosamente di rompere i vetri dell’albergo dietro la porta.
Nel nostro Paese la pena per due dribbling di troppo è un calcione, per una serpentina irridente in stile Ajax è la gambizzazione: il tecnico di Pieris lo sa bene, prende Ibra e se lo porta in ufficio, gli fa vedere una cassetta e gli dice: “Lo vedi questo giocatore? Studiati ogni movimento, come calcia, come appoggia il piede, come attacca lo spazio, tu mi ricordi lui ma devi migliorare tanto”. La cassetta è zeppa di gol di un certo Marco Van Basten.
Lo svedese, che oltre ad essere sbruffone ha come unica ambizione quella di diventare il numero uno al mondo, non se lo fa ripetere due volte: guarda quella cassetta fino a saperla a memoria: al termine di ogni allenamento, anche se stanchissimo, viene richiamato da Galbiati.
E’ finita per tutti ma non per lui che viene sottoposto a una ferrea sessione di tiri da ogni posizione, angolazione e rimbalzo: cross da destra e da sinistra (spesso ricamati da un giovanotto di nome Giovinco) da aggredire senza lasciar cadere il pallone, da colpire in ogni modo possibile.
Nasce lì il gol alla Ibra, quella capacità di arrivare a massimizzare il colpo in ogni posizione possibile ed in ogni situazione: la mascella pronunciata di Don Fabio osserva da lontano, raramente interviene, ma si compiace della rabbia agonistica che Zlatan mette in campo ad ogni supplemento di allenamento, anche se stanco da svenire.
Oggi, con cinquecento gol più uno sulle spalle, Ibra sicuramente avrà ripensato a chi ha trasformato quel talento fromboliere e irridente in un attaccante puro, capace di buttare giù le porte di tutta Europa per oltre quindici anni.
Del resto glielo aveva detto anche Raiola: “Non mi interessa se ti presenti col Rolex quando vieni a parlare con me: li vedi Inzaghi, Vieri, Batistuta? Guarda i loro numeri… tu fai i giochetti, se non segni come diavolo ti vendo?!”

Il calcio è la mia passione in ogni sua sfaccettatura: ho giocato tanto, ho allenato altrettanto e adesso mi piace raccontarlo.