Nel 1975-1976 Toro vinse il suo settimo Scudetto, il primo dopo la tragedia di Superga, che aveva spazzato via il Grande Torino, quella squadra vinta solo dal fato, in grado di conquistare cinque titoli consecutivi tra 1943 e 1949. Uno dei motori di centrocampo di quella meravigliosa squadra era uno dei migliori giovani italiani.
Parliamo di Eraldo Pecci, arrivato al Torino dal “suo” Bologna. Pecci scoprì che la sua squadra lo aveva venduto al Torino, ascoltando il telegiornale da una finestra aperta. Si dice che lo avesse scoperto mentre fece una sorpresa alla fidanzata, andando a casa sua ma trovandola con un altro…
Al Toro Pecci trovò una squadra eccezionale, tra le più forti del decennio in Italia. In “Il Toro non può perdere” Pecci ricostruisce l’alchimia di quella squadra, i gol, i riti scaramantici, parlando tanto anche di Ciccio Graziani.
Nella stagione dello scudetto granata, alla settima, pareggiammo 1-1 all’Olimpico contro la Roma. 
La Roma era una bella squadra con Paolo Conti, Cordova, De Sisti, Prati e con Liedholm in panchina. 
Graziani segnò a 20 minuti dalla fine. Cinque minuti dopo Negrisolo ci tolse la gioia. 
I gemelli del gol erano Pulici e Graziani, ma per le prime sette giornate il “Puli” fu figlio unico, con sette reti segnate. 
Graziani era invece alla prima marcatura. Ma lui aveva un fisico molto potente che lo costringeva a lavorare molto prima di trovare la giusta forma. Ma ce la metteva tutta rendendosi utilissimo alla squadra. 
Graziani anche quando non segnava  aveva un rendimento eccellente.
Lo si vedeva ovunque per tutto il campo. Si portava via gli uomini in attacco con le sue progressioni, quindi lo vedevi in difesa a dar manforte e poi, ancora, in attacco a far da sponda.
Però al contrario di quel che si crede, era tecnicamente molto bravo, dava del tu al pallone. Si applicava maniacalmente. Ogni cosa che diceva Radice lui la eseguiva. Era un fumatore. “Niente fumo”, disse Radice. E lui non fumava più neanche il lunedi. 
“Devi migliorare di testa”, e lui faceva allenamento per migliorare l’elevazione tanto che divenne in breve tempo un attaccante micidiale di testa. 
Aveva i capelli lunghi all’epoca ma con il principio di quella calvizia che lo avrebbe immortalato in seguito.
Noi compagni gli dicevamo che a furia di correre i suoi capelli andavano via con il vento.
E lui ne rideva perché aveva un carattere gioviale e sincero che era un bel stare con lui.
Lo chiamavamo Ciccio, per le sue origini ciociare di cui conservava l’accento.
Romano, di Subbiaco per la precisione, “il paese della Lollobrigida”, come diceva lui. 
Ma nonostante il nomignolo lui era un leader, uno che parlava tanto rispetto a Pulici, invece molto più silenzioso. E leader Ciccio lo era soprattutto in campo, rispetto a Sala o Castellini o Salvadori che lo erano magari più negli spogliatoi.
Mi ricordo che nel sottopassaggio si avvicinava ad ognuno di noi. “Ahó a ragá, me raccomando coll’arbitro. Silenzio e testa bassa» . Per poi mandarlo a quel Paese al primo fischio contro. 
E poi Ciccio a modo suo era un genio.
Una volta con la Nazionale Under 23 andammo a fare una amichevole a Londra contro il Chelsea. 
Il giorno prima fummo ricevuti a Buckingham Palace alla presenza del principe consorte Filippo. 
Da capitano toccava a Ciccio presentargli tutti gli altri compagni di squadra. 
Presentazioni che furono di questo tono. 
“questo è quel frignone de Tizio, quest’altro è quel fijo de bona donna de Caio, questo è quel burino de Sempronio”. 
Ed il Principe : “Yeah, fine”, “Yeah, nice to meet you”, “Yeah, welcome”. 
Tipico cerimoniale  Buckingham-Subbiaco. 
I genitori di Ciccio erano contadini, una generazione che ha fatto grande l’Italia lavorando 12 ore al giorno. 
Il padre faceva colazione al mattino con pane, salame e vino. 
“Ah pá – gli chiese Ciccio da bambino – ma un pó di latte quando lo bevi?”. 
“Quanno ‘a vacca se magna l’uva”, la risposta. 
Ciccio da ragazzo aveva fatto l’imbianchino (lui diceva il pittore) e raccontava certe cose che si rideva una sera intera. 
Nella estate 81 il Toro era in difficoltà economica ed il presidente  disse a me e lui che saremmo stati venduti alla Fiorentina. 
Ci consigliò di andare a parlare con il conte Flavio Pontello per abbozzare una intesa sull’ingaggio, dato che il mercato non era ancora aperto e non potevamo firmare nulla. 
Il Conte ci accolse con “Questo anno lottiamo per lo scudetto e gliela facciamo vedere al meccanico di Torino”, intendendo Agnelli. 
Graziani mi lanciò uno sguardo come dire “Annamo bbene..”. 
Ci accordammo. Ma solo sulla parola, dato che come detto non potevamo firmare. 
Il giorno dopo io e lui stavamo riposando in camera e qualcuno gli passa una telefonata. Era Ferlaino, presidente del Napoli. Aveva saputo della trattativa ma anche che nulla era ancora scritto. “Venga a Napoli. Le offro 100 milioni in più”. 
Quella cifra all’epoca era il costo di una villetta. 
Ma Graziani rispose “Grazie presidente, ma io ho una parola sola”. 
Questo era Ciccio Graziani“.