20 Maggio 2025

Il sabato santo del 1998 il Napoli retrocedeva in Serie B.
Avevo 25 anni. E non avrei mai pensato potesse accadere.

In quel sabato santo, precisamente era 11 aprile 1998, ormai mancavano pochi minuti alle 17 e al termine delle partite della 29ma giornata di Serie A. Fabio Fazio stava raccontando l’acceso duello al vertice tra Inter e Juve.
D’improvviso Marino Bartoletti, opinionista sportivo di punta del programma, lo interrompe: “Scusa Fabio, è finita la partita a Parma. Il Parma ha battuto per 3-1 il Napoli e purtroppo, con questa sconfitta, i partenopei sono matematicamente retrocessi in serie B dopo 33 anni.”

Parma-Napoli 3-1, gol di Crespo (doppietta) e Apolloni per gli emiliani. Momentaneo pareggio azzurro siglato da Bellucci.
Era la partita della matematica retrocessione.

Nell’immaginario collettivo, l’istantanea che descrive al meglio quella giornata di tanti anni fa è l’abbraccio di Fabio Cannavaro ex e napoletano, al portiere azzurro Taglialatela che esce dal campo tra le lacrime amare di una retrocessione annunciata e appena concretizzata.

C’è modo e modo di finire nella storia, quello fu sicuramente uno dei peggiori.
Quella stagione nera e maledetta, da 14 punti in 34 partite e due sole vittorie in campionato, segnò una generazione di tifosi.
I più giovani, quelli nati negli anni Novanta, hanno conosciuto un Napoli in Serie B e poi addirittura in Serie C. Quelli nati negli anni Sessanta, invece, conobbero per la prima volta la discesa al piano di sotto.
L’ultimo torneo in Serie B del Napoli era datato 1964/65. Poi, un segmento ininterrotto di 33 anni nel massimo campionato. Con dentro il periodo d’oro di Maradona, conclusosi appena sette anni prima di quel Parma-Napoli 3-1.

Per me, classe ’73, avendo iniziato a seguire il Calcio nel 1980, il Napoli era sempre stato una squadra da classifica medio-alta, pur con qualche sofferenza.
Poi è stata la magnifica squadra maradoniana, quella pur ottima del dopo Maradona, fino a divenire via via più povera. Consunta, anno dopo anno, da cessioni eccellenti.
Da Maradona, a Zola, a Di Canio, a Benny Carbone, a Pizzi, a Beto…
Solo considerando l’uomo della fantasia, ogni anno uno o più scalini verso il basso.
Pur nel progressivo depauperamento tecnico, nel gigantesco indebitamento post Maradona, il Napoli manteneva ottime individualità e stagioni più che dignitose.
Con Lippi arrivò la qualificazione in Uefa. Con Boskov la si sfiorò. Sempre con il serbo, nel principio 1995-96, si era in testa alla classifica.
Con Simoni, con Cruz e Boghossian, si era arrivati in finale di Coppa Italia ed a Natale il Napoli aveva mangiato gli struffoli da secondo in classifica.

La stagione 1997-98 era cominciata con le solite cessioni eccellenti.
Ma erano anche arrivati buoni acquisti. Protti, Bellucci, Sergio, Rossitto, Goretti.
Poi c’era quel Calderon con ottime referenze.
Si era accarezzata l’idea Baggio, ma anche così andava bene.
Ed erano rimasti Taglialatela, Ayala il capitano della Seleccion, Turrini.
Il problema erano i bidoni incommensurabili raccattati ovunque e l’assenza di qualsiasi progetto tecnico. Con stipendi non pagati.
Insomma in fin dei conti non era assurdo quel finale.
Ma non ce ne rendevamo conto.

Mutti era andato male ma arrivava una sicurezza come Mazzone, il quale portava il vecchio principe Giannini, al tramonto ma niente affatto in disarmo.
Fu un lento precipitare.

Galeone era l’ultima idea velleitaria che con Allegri ed Asanovic (il quale, per inciso, sarebbe stato titolare della Croazia mondiale solo 4 mesi dopo) certificò il disastro.
Juliano da dg, Montefusco in panchina, avevano solo il compito di rendere dignitosa la retrocessione e pianificare il futuro.

Capii di vivere, da tifoso, il paradosso della rana.
Buttate una rana in una pentola di acqua bollente e lei si contorcerà dal dolore.
Mettetela in acqua tiepida, in una pentola sul fuoco da portare lentamente a bollore.
Si abituerà e si troverà bollita senza neanche accorgersene.
Ecco cosa era divenuto il triste campionato del Napoli in quella stagione, e come era arrivato alla Pasqua del 1998.

Non soffrii neanche tanto.
Noi tifosi del Napoli non piangevamo neanche. Ci eravamo semplicemente abituati.
Ma già da anni.

Forse avevamo cominciato a farlo nell’istante in cui un aereo di linea nell’aprile 1991 partiva da Napoli, in piena notte, diretto a Roma da cui ne sarebbe partito un altro con destinazione Buenos Aires. A bordo vi era il nostro amore.
“Ma dove, dov’è, il tuo amore /ma dove, dov’è finito il tuo cuore?”, cantava De André sulle note di Hotel Supramonte.

La caduta del Napoli in B era anche peggio in una città tanto identitaria con la sua squadra di calcio.
Quegli anni bui dei partenopei indirizzarono tanti bimbi di Napoli e dintorni verso le strisciate del settentrione. La fede azzurra nonostante le avversità, per quei bambini era motivo di scherno.
Come magari lo era essere tifosi granata del Torino al cospetto di giovani tifosi della Juve, oppure essere laziali nella Roma dei primi anni ’80. Uno strazio, insomma.

Ed in più la Salernitana era salita in A in un inedito scambio di ruoli e posizioni tra città campane.

È cambiato il calcio, è cambiato il Napoli
Anni dopo, il Napoli sarebbe tornato ad essere una realtà consolidata del calcio italiano e internazionale.
Mentre il calcio tutt’intorno è cambiato, il Napoli è riuscito a tornare a buoni livelli.

Ma io quel sabato santo di Pasqua in cui vidi il Napoli retrocedere matematicamente in una Serie B che non avevo mai vissuto, non posso dimenticarlo.
Ricordo che non provai dolore. Non rabbia. Nessuno a Napoli pianse o contestò gli déi, i santi o i giocatori.
Eppure non provo colpa o rammarico per quella algida indifferenza.

Perché fu sincera, e piena, e colma, la mia tristezza, la tristezza di tutti, quando vedemmo Taglialatela piangere tra le braccia di Cannavaro.

 

Emiliano Buendía, La poesia del calcio

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