Il momento assolutamente negativo che sta attraversando in questa fase della stagione Lorenzo Insigne è ormai conclamato. E la doppia sfida con il Milan ha dimostrato che la crisi non è strettamente connessa con il ruolo ricoperto dal folletto di Frattamaggiore. Se è vero, infatti, che contro il Diavolo, in campionato, Lorenzinho ha occupato una posizione di campo assai defilata e lontanissima dalla porta avversaria, l’altro ieri sera, in Coppa Italia, pur giocando di punta, la sua partita è stata ben al di sotto degli standard eccellenti cui aveva abituato durante la precedente gestione tecnica.

Tuttavia, sabato scorso, aveva avuto un cattivo approccio alla gara, dimostrandosi indolente, al limite del deleterio, per sé stesso, prima ancora che per la squadra. Martedì, invece, ha invertito la tendenza, con un atteggiamento almeno propositivo, risultando comunque il più pericoloso del Napoli, sul piano meramente numerico delle conclusioni verso la porta rossonera. Ma se l’astinenza dal gol continua – siamo ormai a quasi tre mesi, l’ultima rete risale allo scorso 6 novembre, su rigore, contro il PSG – quello che preoccupa ancora di più è l’aspetto mentale della sua “latitanza”.

E qui bisogna fare una premessa di carattere generale, che afferisce i concetti di leader & fuoriclasse. Un giocatore non ordinario, che contempla l’idea, quando pensa a sé stesso, di meritare la qualifica di fuoriclasse, sicuramente permette alla sua squadra di vincere alcune partite. Il talento, da solo, però, non è sufficiente. È il lavoro di squadra che consente di raggiungere determinati target. Di questo concetto semplice, sostanzialmente banale, Insigne ne è pienamente consapevole. Non a caso, lo scorso anno, Maurizio Sarri chiese ed ottenne dal folletto di Frattamaggiore la piena disponibilità a mettere una parte del suo talento in subordine, rispetto alle esigenze del collettivo. Non per sminuirne le abilità tecnico-tattiche. Al contrario, per esaltare, in regime di condivisione comune, le capacità di Lorenzinho che, con il “Comandante”, ha lavorato talmente bene in funzione della squadra, nell’ambito delle due fasi di gioco (possesso e non possesso-palla), da acquisire a pieno titolo lo status di Top Player.

In effetti, un Top Player, per essere considerato tale, dovrebbe manifestare il suo talento, non solo individualmente, attraverso giocate sopraffine e qualitativamente superiori alla media di compagni ed avversari, ma contestualizzandolo. Ovvero, contribuendo concretamente a elevare il rendimento di tutto il gruppo, sacrificando una parte del proprio ego calcistico per migliorare la squadra.

È assodato che la scarsa propensione al sacrificio di quei giocatori che, invece, per doti tecniche naturali, dovrebbero fare la differenza, rende assai più arduo il raggiungimento degli obiettivi stabiliti ad inizio stagione da staff tecnico, direzione sportiva e società. Al contrario, se si ragiona come gruppo coeso, in cui la fiducia reciproca nelle situazioni di difficoltà opera come collante, senza creare distinzioni tra titolari e riserve, oppure tra Top Player e comprimari, il successo di squadra non solo potrebbe essere più facilmente raggiungibile. Ma determinerebbe come conseguenza accessoria l’emersione del talento. Di più, favorirebbe il riconoscimento dell’individualità di spicco, in regime di condivisione con il resto dei compagni.

Il succo della questio sta tutto in questo rapporto osmotico, quasi simbiotico, tra il Campione e la squadra e tra il Campione ed il suo allenatore. Con il Top Player (o presunto tale…) che viene preso a modello, in quanto rispettato da tutti i suoi compagni e quindi riconosciuto come leader dal tecnico, in quanto capace di assumersi le responsabilità che competono tale ruolo. Questo è l’ambito in cui si evidenziano maggiormente le specificità gestionali di Carlo Ancelotti, capace di amministrare al massimo livello di efficacia il talento dei Top Player a sua disposizione, ovunque abbia allenato, in Italia e nelle principali Leghe d’Europa.

Anche in questo caso, occorre fare una precisazione: emerge un palese rapporto di interdipendenza tra l’allenatore ed i suoi “campioni”. Perché il “talento” ha sempre un grande ego, ma non rende da solo. Anzi, vuole una direzione. Ne ha bisogno. E questo input sarà sempre l’allenatore a fornirglielo, accettando e incanalando l’ego del Top Player in funzione delle esigenze della squadra. Ecco, quando hai la fortuna di avere un Top Coach come Ancelotti con spiccate doti di leadership, legittimato nel ruolo dal rispetto nutrito nei suoi confronti da tutto l’ambiente (squadra, direzione sportiva e societaria) ed un talento cristallino, seppur momentaneamente appannato come Lorenzo Insigne, non c’è alcun problema nel rilevare quei momenti della stagione in cui il leader tecnico stesso non sta attraversando un buon momento di forma. In categorie inferiori, magari, l’atteggiamento è diverso: i giocatori preferiscono mettersi sulla difensiva, quando fai notar loro le manchevolezza, perché sono meno sicuri dei loro mezzi.

In questo momento, Ancelotti e Insigne sembrano legati l’uno all’altro da uno stato di bisogno. L’allenatore pretende (anche…) dal talento cristallino di Lorenzinho la soluzione ai problemi offensivi del Napoli, apparsi ormai evidenti nelle ultime settimane. Il folletto di Frattamaggiore, invece, cerca nel tecnico di Reggiolo le condizioni ottimali affinché gli costruisca attorno un contesto di squadra in cui tornare a brillare.

Insomma, i due dovranno rimboccarsi le maniche e risalire la china. Altrimenti, rischieranno di affondare come singole entità, piene di talento e cultura calcistica, ma incapaci di esprimerlo in funzione degli obiettivi prefissati. Tenendo ben presente che, dopo la precoce eliminazione dalla Champions League, nel frattempo, è sfumata anche la Coppa Italia!!!

 

Francesco Infranca